“Non è necessario pregare, basta guardare le stelle per sentire di voler affondare nella terra in muta adorazione”Edith Irene Södergran(San Pietroburgo 4/4/1892 – Raivola 24/6/1923)
Fin dalla prima nota, i suoni di “Sylvatica” separano l’ascoltatore dalle piccole, destrutturanti e spersonalizzanti realtà attuali per connetterlo al proprio enorme regno interiore. L’itinerario è una carezza all’anima dalle infinite sfumature, ricca di spiritualità ciclicamente messa a fuoco da corde di arpa bardica e poesia a due voci. Sono armonia e passione a stabilire quanto questi dodici canti siano distanti dai freddi intellettualismi come dalle patinature new-age che pretenderebbero entrare nel respiro mistico orientale attraverso effimeri profumi d’incenso, mormorii di tabla, pizzicati di sitar. Qui siamo in presenza piuttosto dello scorrere delle acque, del sibilare del vento, dell’eco che rimbomba, del fragore di tuono e silenzio, dell’ululato della presenza animale, della sacralità dei luoghi. Ataviche sincerità per la sfera umana intima, che sanno trasformare i suoni in quelle poiesi creative che si accendono quando la relazione tra natura e persona si fa più stretta. Privo di tecnicismi o cerebralismi, l’ago della voce di Barbara Zanoni (anche danzatrice contemporanea, coreografa, insegnante di yoga e meditazione) ricama la dimensione rituale delle note sulla seta delle corde di Francesco Benozzo (anche filologo, antropologo e poeta) consentendo alle parole di vivere di musica. L’incanto dell’arpa presenta certamente continuità con i precedenti affreschi sonori di matrice bardica del musicista, che uniscono idealmente Appennino modenese e Galles. Una serie di preziosi dischi iniziati a partire dall’esordio in solitaria, prodotto e registrato dal vivo nel 2005 proprio qui a Verona, presso la locale Fondazione Centro Studi Campostrini. Come manifestato in innumerevoli occasioni quotidiane (purtroppo perlopiù generalmente ignorate) la ricomposizione profonda dell’individuo appare oggi possibile solamente attraverso il ritorno a un insieme di semplicità. In “Sylvatica” l’indagine tematica dello sciamanesimo preistorico e pre-celtico immerge l’ascoltatore nelle radure della foresta interiore, verso una frontiera aperta tra sogno e danza. La quarta traccia “Incantesimo/Canto Del Bardo” è canzone di metamorfosi che utilizza parole di Taliesin, il più antico poeta in lingua gallese arcaica, di cui siano sopravvissute opere. Lo sciamanesimo celtico è derivante dalla tradizione nativa del nord-ovest europea, i Celti, pur apparendo in epoca di molto posteriore a quella paleolitica, mantennero maggiori elementi rispetto ad altri popoli d’Europa settentrionale e occidentale. Fondamentale, per esempio, fu conservare la figura della Dea Neolitica all’interno delle dee femminili, il che permise alle donne di possedere nell’antica società celtica, ruoli pari a quelli degli uomini. Non è certo poca cosa, considerato in quanti casi questo non sia scontato neppure molti secoli dopo, all’interno delle ipertecnologiche realtà attuali. La più conosciuta figura storica di sciamano celtico è stato Finn MacCumhal, presente nella mitologia irlandese, scozzese e dell’Isola di Man e la cui vicenda inizierà il Ciclo Feniano. Il brano in questione si attorciglia a una ninnananna appartenente alla martoriata popolazione indigeno-giapponese degli Ainu. È questo un disco che, seppur registrato a Modena, proviene commercialmente, da un luogo sperduto di quel nord Europa spesso teatro in arte come nella vita, di sentimenti soprannaturali e di terrificata soggezione di fronte agli elementi di una Natura talmente sublime che qualcuno l’ha definita “anticamera di Dio”. E la sua musica evoca molto di quei paesaggi nordici ancora capaci di conservare qualcosa di primigenio, una scenografia naturale che apoditticamente si riflette anche nella psiche, nella letteratura, nella musica, nelle favole, nella ricerca del “genius loci” da parte di quelle popolazioni. E proprio dalle Isole Fær Øer il duo Benozzi/Zanoni è appena tornato, dopo quattro concerti con questo repertorio, al Summartónar Festival 2024, unici ospiti internazionali in cartellone rispettivamente a Vágur, Viðareiði, Mykines e Tórshavn. A seguire riprenderanno gli spettacoli in luoghi italiani, soprattutto dell’Emilia-Romagna. L’incantevole vocalizzo di Barbara conduce a elevate profondità, si intesse di luce e ombre alternando trasparenze a toni più densi, attinge dall’erotismo dei mormorii, dalle estensioni degli spazi, dal gelo dello sconosciuto, dalle melodie sempre in movimento. Nell’introspezione dove si dipanano queste cantilene, ballate, invocazioni, il canto lascia intuire quale rapporto strettissimo possa esistere tra respiro, voce, luce, spazio, spirito. D’altronde è la parola stessa “spiritualità” a derivare da “respiro”, soffio vitale. Pierre Teilhard de Chardin sosteneva che: “noi non siamo degli esseri umani che vivono esperienze spirituali, siamo degli esseri spirituali che vivono l’esperienza umana”. Lo sciamanesimo è una delle più antiche discipline spirituali di cui si è a conoscenza (se ne trovano tracce già nelle pitture rupestri delle grotte paleolitiche), tentativo umano di vivere in armonia con il circostante che presuppone orizzonti filosofici e spirituali opposti a quelli sia cristiani che islamici. Non è presente unicamente presso i popoli di tundra e steppa, basta pensare all’“aşik”, bardo mistico d’Anatolia e Caucaso, cantante/poeta che si accompagna con il saz, figura assai simile al “bakşı” cantante-sciamano-viaggiante, turkmeno, kazako e chirghiso. In Europa, l’arpa tradizionale, strumento introspettivo folk per eccellenza, è raramente ascoltabile in ambito sciamanico dove generalmente sono privilegiate sonorità percussive. La voce, al contrario, è elemento supremo, privilegiato dalla Natura stessa per quel suo invisibile e misterioso percorso nell’intimità corporea dell’individuo. È lo strumento che più si avvicina al pensiero dell’essere. Assieme ai brani originali che aprono e concludono il disco “Creazione Del Cerchio Sciamanico” “Dialogo Notturno Col Lupo” “Accensione Del Fuoco” “Canto Della Balena” “Evocazione Delle Dee Solari”, si odono atmosfere provenienti da differenti tradizioni: mongola del nord “Richiamo Del Fiume”, sami “Viaggio Dell’Anima”, estone “Sul Sentiero Delle Betulle”, ostiaca “La Ragazza Orsa”, nord-groenlandese “Fiaba Dei Ghiacci”. A dimostrazione e rivendicazione di come le culture remote sussistano, seppur ignorate o perseguitate da numerosi governi poveri di spirito, anche nel presente. La parola “sciamano”, derivante dal tunguso (gruppo di lingue altaiche della taiga siberiana) “samān” è traducibile con “prete buddista”, forse anche per questo in Occidente spesso lo si è inteso unicamente in senso religioso, ma è anche parte di un fenomeno culturale. La tradizione canoro-sciamanica, capace come poche altre di tendere i nervi scoperti dell’individuo, scatena elementi e energie travolgenti di avvicinamento al divino. Nei passati decenni ha influenzato e ispirato alcune figure musicali illuminate e le loro avanguardistiche creazioni (seppur nell’utilizzo di diversissimi stili): l’istrionico, compianto trombettista afro-americano Don Cherry, il polistrumentista tedesco Stephan Micus, il batterista scozzese Ken Hyder. Ma colei che più di tutti l’ha internazionalizzato è stata l’eclettica cantante di Tuva, Sainkho Namtchylak che, dai Monti Altaj siberiani e dal Lago Baikal (il più profondo al mondo) ha fatto conoscere i canti di gola xöömej nel resto d’Europa. Utilizzando la sua sobbalzante voce in un gioco di timbriche, improvvisazioni, acrobazie tonali e asprezze stridule, l’ha fatta uscire, sola o duplicata, da naso, gola, viscere, dall’intero suo piccolo corpo di donna. Nel terzo brano di Sylvatica “Sottobosco/Oracolo Della Sciamana” vengono utilizzate parole provenienti proprio da Tuva, nella Siberia meridionale, su musica originale di Benozzo/Zanoni, in una “accordatura della voce e dell’arpa al regno vegetale”. Il canto rituale di gola profonda lo si ritrova, con stili e tecniche lontane tra loro, oltre che in Mongolia, anche in Sardegna, nelle regione artiche canadesi degli Inuit o quelle sudafricane dove viene utilizzato nel corso delle cerimonie tradizionali. In questi ultimi due casi sono unicamente le donne a cantare, un tempo erano, al contrario, gli uomini a causa della notevole forza fisica richiesta a comprimere i polmoni e che faceva perdere la voce alle donne. I monaci del Tibet hanno riservato una netta connotazione mistica a questa pratica canora, la loro tecnica è adoperata per intonare i mantra e si lega alla concezione religiosa della realtà vibratoria dell’Universo. Oggi in Occidente, alcune esperienze sciamaniche e canti tibetani sono diventati forme di terapia fisico-spirituale in funzione di trascendenza, inoltre, musicalmente parlando, da più di un ventennio, artisti di canto armonico dell’estremo nord del mondo, sono in cartellone nelle programmazioni di celebri world music festival come il Womex. E’ capitato di ascoltare sui palchi, grandi cetre un tempo ritenute sacre dagli antichi cantastorie, così come canti finnici Yamal provenienti dagli Urali. Oppure musiciste in abiti bianchi e blu foderati di pelliccia evocanti immagini polari in un vero e proprio “teatro di strada”, così come voci acutissime di Jacuzia combinate a suoni ritmici di scacciapensieri. Nella Mongolia rurale invece, la musica che si ascolta accompagnare le voci è prevalentemente quella del violino a forma di testa di cavallo, oltre che del liuto, in un canto che potrebbe trarre origine da quello dei nomadi turchi. Ma anche delle schiere che seguivano l’esercito del condottiero Gengish Khan, il cui prozio Qutula era pontefice degli sciamani, celebrato da bardi per la voce potente che rimbombava come tuono tra le gole dei monti. Col trascorrere del tempo vennero poi sviluppate positive norme etico-morali di carattere mistico, umanistico ed ecologista tra uomo e natura (yasa) comprendenti le varie pratiche sciamaniche. Nella penisola coreana, durante il periodo di tre regni (57 a.C. - 668 d.C.) che precedette Confucianesimo, Taoismo e Buddismo, lo sciamanesimo era addirittura religione di Stato, prima di trasformarsi in pratica popolare o folklorica “sinawi”. Viene musicalmente eseguito da un gruppo ridotto di strumenti: changgo (tamburo a clessidra), taegum (flauto) e p'iri (oboe) che lo sciamano dirige contemporaneamente a cantare e danzare. Uno dei luoghi più suggestivi dove partecipano gruppi indigeni, si trova nell’alto Altai, durante l’annuale Festival Zhivaya Voda (Acqua Viva) organizzato da appassionati di Novosibirsk. Su uno sfondo sperduto e desolato, che lo fa assomigliare ai paesaggi del Festival del Deserto nel Sahara, non è infrequente scorgere come parte della scenografia dei “kurgans”, tumuli tombali che dai tempi dell’Eneolitico risultano pratiche tradizionali nella Siberia meridionale e in tutta l'Asia centrale. Anche i canti in evocazioni politeistiche contenuti in “Sylvatica” sono rivolti a quell’imprecisato spazio sacro presente nella mente di ciascuno, in quella stanza della vita intima dove si mescolano un tempo reale e un tempo dilatato dalla percezione, un tempo presente e un tempo di sogno lieve, un tempo fisico di gioventù e bellezza e un tempo bisbiglio dell'anima tenuto in ostaggio dal tramonto dell'età. Voci e suoni di Benozzo e Zanoni galleggiano in questo fiume infinito, a filo d'acqua, sempre nella speranza di trovare una corrente buona, ogni verso di poesia può contenere sufficiente splendore per accettare e sufficiente disperazione per rifiutare. Le canzoni procedono lentamente su un crinale che non è mai solo l'evidenza della luce, né l'ignoto dell'oscurità. Si trovano presenti echi del passato e probabilmente si possono intravedere anche quelli di uno sconosciuto futuro, a fronte di quanto possa risultare faticoso e destabilizzante separarsi dagli usuali e rassicuranti concetti spazio-temporali. Poiché tutte le creazioni artistiche si sono arricchite nei secoli, delle fantasie e delle intuizioni di un’infinità di artisti popolari, dei sogni lontani di vite trascorse, del fluire di eventi in precedenza accaduti. Ispirazioni e illuminazioni millenarie che non possono certo venire invalidate dalle nuove conoscenze acquisite, alla psiche umana poco importa perfino della scienza, la musica continua e continuerà a essere sia ricordo che riconoscimento. Sussistono luoghi, come la sala capitolare dell’Abbazia di Relec, nei Monts d'Arrée di Bretagna (fondata nel 1132 da sette monaci cistercensi), dove le rovine, anche se ridotte a due muri uno di fronte all’altro, risuonano ancora oggi come se in quello spazio claustrale oramai all’aria aperta, il suono rimbalzasse da pareti scomparse. Ritengo riduttivo “confinare” nella folk-music le composizioni di Sylvatica, che andrebbero piuttosto inserite, per come ne tratteggiano una nuova free-form, in una “canzone d’autore moderna”. Posseggono una melodiosa poetica che non risulta sterile glottologia descrittiva, bensì creatrice di immaginari nuovi all’interno della tanto decantata universalità contemporanea. Senza dimenticare vieppiù, che tutte le antiche pratiche spirituali, a qualsiasi latitudine, sono sempre state ben radicate nella Natura. Inoltre sono dimostrazione della tradizione in perenne movimento: i nodi di enigmaticità un tempo delegati unicamente alla irrazionalità sonica di uno strumento, possano venire oggi sciolti anche da parole di testi scritti. “Sylvatica” è infine anche incontro felice tra elemento femminile e maschile, tanto luminoso quanto purtroppo in contro-tendenza rispetto a molte cronache sociali. A volerle ascoltare, musica e canto rappresenterebbero tra le più potenti, comprensibili ed efficaci guide nella stordente, assurdamente veloce e autodistruttiva molteplicità dell’universo umano contemporaneo.
Flavio Poltronieri
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