Concertone de La Notte della Taranta, XXVII Edizione, Melpignano (Le), 24 agosto 2024

Arriviamo a Melpignano mentre il sole al tramonto digrada sulle campagne salentine, regalandoci un’immagine di rara poesia, da cui veniamo distolti dal machiavellico itinerario previsto per i parcheggi. Man mano che ci avviciniamo al piazzale dell’ex Convento degli Agostiniani, ci accolgono il ritmo incerto dei tamburi a cornice che risuonano e il forte odore di vino, misto a quello pungente dell’erba che si spande lentamente nell’aria. Gli auspici sotto i quali è nata l’edizione 2024 del Concertone de La Notte della Taranta non sono dei migliori perché, al pari, le premesse non lo sono state: un po’ per quella narrazione sempre più stucchevole che pervade le pagine social del festival, un po’ per le scelte artistiche che hanno confermato i presagi più oscuri su cui ci eravamo interrogati nel commentare le precedenti edizioni. Il cupio dissolvi di questi anni sembra ora presentare il suo conto. Il tentativo di proiettare verso il futuro il patrimonio immateriale della tradizione musicale salentina, facendolo dialogare con il pop, i suoni urban, la trap e il mainstream sanremese si sta rivelando un perverso gioco al ribasso, una semplificazione mortificante di un patrimonio e con esso delle ricerche sul campo, degli studi e di quel movimento della
riproposta che ne aveva riannodato i fili del tempo. Negli anni scorsi era apparso già chiaro come non fosse felicissima l’idea di avvicinare le nuove generazioni alla musica tradizionale attraverso sonorità e stili moderni partendo da una fredda ed asettica ibridazione priva di senso. Ci siamo, però, interrogati a lungo sui metodi e le finalità che hanno condotto a queste scelte, abbiamo cercato anche “l’alba dentro l’imbrunire”, ma purtroppo non l’abbiamo trovata. Non abbiamo trovato una scelta artistica definita, quella progettualità che manca da troppo tempo, una ricerca sistematica che faccia da preludio all’orchestrazione, ma soprattutto non abbiamo trovato più quelle coordinate su cui si muoveva il festival fino a qualche anno fa. Abbiamo assistito ad una rivoluzione che sta donando nuova linfa vitale alla tradizione e non ce ne siamo accorti? Quello che è certo che è tutto questo ha finito per penalizzare anche il festival itinerante, dal quale sono sparite le produzioni originali, i progetti speciali e il cartellone parallelo  de “L’Altra Tela”, che consentiva la scelta tra i concerti da ascolto più attento e quelli destinati al ballo e al divertimento. Facendo un po' di miracoli è stata realizzata comunque una programmazione di tutto rispetto, tra cui ci piace segnalare i concerti di Radizi con
“Cal y cemento”, Cesare Dell’Anna, Redi Hasa e Ekland Hasa in “Ritmi dei Balcani”, Arneo Tamburine Project di Giancarlo Paglialunga, Canzoniere Grecanico Salentino & Inude in “Pulse”, Hysterrae e “Li Bellizzi. La ricerca e la riproposta di Giovanna Marini nel Salento” di Enza Pagliara e Dario Muci. La sensazione è, però, che la Notte della Taranta abbia scelto di moltiplicare le presenze, i numeri, i contatti e le interazioni sui social, finendo per rimetterci la propria anima, sacrificandola sull’altare della televisione, diventando un altro territorio occupato da Sanremo, un modello festivaliero estivo da poter replicare, con successo, anche in altre regioni come dimostra l’esperienza de La Notte dei Serpenti, discutibile clone in salsa abruzzese. Si è generato, così, un cortocircuito tristemente (e forse inconsapevolmente) evocato dalla prima delle (bellissime) grafiche di Emilio Isgrò, realizzate per l’edizione 2024, che campeggiava sul palco e in cui il nome “La notte della Taranta” è completamente cancellato. “Ecco, la musica è finita/gli amici se ne vanno/che inutile serata”. Ecco nelle parole di questa celebre canzone di Umberto Bindi e Franco Califano abbiamo trovato il senso di tutto il concertone del 2024. La fine di tutto. Un de profundis
lento, inesorabile, istagrammabile, officiato dai reel dei social-media manager, dal tutto è fantastico, bellissimo e fortissimo, dall’entusiasmo ingiustificato di un “popolo della taranta” che non esiste e non è mai esistito, e che oggi è solamente un pubblico non educato a cui viene proposta solo una lontana e sbiadita idea della musica tradizionale. Non è possibile ridurre tutto ad una questione di mero gusto, anche perché nel passato neppure sono mancate le edizioni poco felici (per usare un eufemismo…) ma la valutazione da fare deve necessariamente partire da una riflessione sul fenomeno nella sua complessità, a partire dal senso che ha assunto questo festival negli anni e dalle tante (troppe) occasioni perse. L’edizione 2024 ci ha lasciato, purtroppo, non pochi dubbi sui quali, mai come ora, è necessario riflettere per il prossimo futuro, magari ripensando le esperienze del passato e facendo tesoro di quello che è accaduto negli ultimi anni. Venendo più direttamente alla cronaca della serata, ragioni di diretta televisiva hanno evidentemente imposto il taglio di quella che era l’anteprima del concertone, riservata quest’anno alla presentazione di alcuni progetti realizzati nelle scuole, ma soprattutto hanno imposto tempi e pause che certamente hanno inficiato
nella resa generale. Non particolarmente fortunata ci è sembrata la scelta di Shablo come maestro concertatore, la cui cifra stilistica ha certamente reso più moderna ed accattivante la resa sonora ma ha completamente cancellato - nel medesimo stile si Isgrò - la ricchezza delle timbriche dei tamburi a cornice e con essa la complessità delle ritmiche, generando un “tunz tunz” con la cassa dritta che ha plastificato ogni brano, ha ingessato l’orchestra e ridotto al minimo il contributo delle voci melodiche. Il salvabile è più o meno stato salvato dalle orchestrazioni curate da Riccardo Zangirolami, ma è parso chiaro che il lavoro del maestro concertatore avrebbe dovuto essere più consapevole e rigoroso anche nel tradire la tradizione. La scena internazionale ci ha consegnato, negli ultimi anni, numerosi esempi di intersezione e incontro tra l’elettronica dei producer e le musiche del mondo, e forse sarebbe stato utile guardare anche a queste esperienze, a partire magari da quelle nate in Italia e in Salento. Ci è sembrato un po’ insensata la scelta di intervenire, riarrangiare e ricontestualizzare i repertori della tradizione musicale salentina senza avere una conoscenza del contesto in cui sono maturate le ricerche sul campo. Nella generale involuzione, abbiamo notato come alcune voci dell’orchestra ormai tendano con sempre maggior frequenza ad abbandonare i modi
del canto tradizionale a favore di interpretazioni di matrice pop che certamente privano i brani dell'essenza, quella vocalità “disturbante” sotto il profilo popular, ma che ci possiede, come ci ha insegnato Giovanna Marini. In ogni caso, non sono mancati momenti interessanti come la “Tarantella di Sannicandro” cantata da Giancarlo Paglialunga, il canto in arbëreshë “Manushaqe” interpretata da Salvatore Galeanda e “Pizzica di San Marzano di San Giuseppe” con Enza Pagliara voce solista e la citazione di Sergej Vasil’evic Rachmaninov, o ancora la versione tanguera di “Malachianta” e la trascinante “Pizzica di Taranto”. Il resto, però, ha convinto molto poco. Del loro meglio hanno fatto Angelina Mango su “Su Picculina” e Gaia su “Menamenamò”, mentre del tutto fuori contesto ci sono sembrate le versioni “pizzicate” (termine, in verità, assai infelice) dei brani da classifica, così come le comparsate di Geolier, catapultato sul palco di Melpignano, senza aver preso parte ad alcuna prova, e della seppur brava Stre. Il problema anche in questo caso ha radici lontane nel tempo perché non si comprende a chi giovi proporre un brano da classifica sul palco de La Notte della Taranta. Era proprio necessario ascoltare una brutta versione di “I p’ me, tu p’ te”? Era necessario che Gaia cantasse la sua hit “Chega”? Quanto, poi, alla conduzione di Ema
Stokholma ci è parsa farraginosa e piena di imprecisioni, veicolando un messaggio completamente distorto, oltre a far calare in più occasioni la tensione del concertone. Preferiamo non commentare le coreografie e i costumi scelti per il corpo di ballo che da inutile orpello televisivo, ci sono sembrate non particolarmente riuscite. Al contrario ci sono piaciute le sequenze visual della Galattico in cui abbiamo avuto modo di apprezzare una selezione di immagini di Giuseppe Palumbo (1889-1959), il fotografo in bicicletta, conservate nell’Archivio del Museo Castromediano di Lecce. In conclusione, appare necessario ripensare sin dalle fondamenta questo festival e con esso il concertone finale, magari guardando con attenzione alle esperienze dell’estero e tornare a far tesoro di quegli incontri con artisti della scena world che avevano caratterizzato le prime edizioni. L’Orchestra Popolare dovrebbe tornare a rappresentare la scena musicale salentina, mettendo a frutto l’esperienza internazionale accumulata negli anni dai suoi artisti di punta, diventando un laboratorio aperto di sperimentazione e ricerca, oltre che un incubatore formativo sul territorio per valorizzare i giovani talenti. Per il futuro, ci sembra più che mai urgente l’avvio di un percorso costruttivo di confronto per dare un nuovo volto a La Notte della Taranta, un profilo più autorevole ed internazionale, mettendo da parte tutte le infelici “conventio ad excludendum” che ne hanno puntellato la storia più recente, impoverendo di anno in anno questo festival. 


Salvatore Esposito

Foto e video di Salvatore Esposito

2 Commenti

  1. 15 minuti alla tv mi sono bastati.

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  2. Siamo stati io e altri numerosi soggetti che scrivono su facebook delle Cassandre contro cui hanno remato i social per motivi prettamente economici. Non e' stata trovata l'alba nell'imbrunire come diceva il grande Battiato ed e' stata distrutta nel tempo (anche le precedenti edizioni hanno.preparato il de profundis finale) la pizzica,la tradizione pura tipica del Salento.E ne rimaniamo orfani certo non gioiosi e infelici.Il.

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