Pietro Sisto, professore di Letteratura italiana presso l’Università di Bari, non nuovo alla frequentazione di tematiche legate al fenomeno del tarantismo, ci consegna un’opera preziosa che, soprattutto nella parte antologica, può rappresentare un utilissimo strumento di conoscenza per i tanti che continuano a trovare interesse per il celebre «male oscuro», che come è noto una lunga tradizione attribuiva al morso di una certa «tarantola» (animale creduto reale ma in realtà «simbolico» – come definitivamente interpretato da Ernesto de Martino – nonché “ircocervico”, cioè di natura cangiante e a volte combinata con altri esseri più o meno simili).
Il ricco testo si presenta articolato in due distinte sezioni e i primi cinque capitoli ospitano altrettanti saggi precedentemente editati in pubblicazioni specifiche e riproposti in una versione rivista e ampliata. In quello iniziale viene analizzata la presenza del “falangio apulo” in seno alla tradizione letteraria – in particolare fra Rinascimento e Illuminismo, epoche in cui il fenomeno diventa oggetto di ricorrenti riflessioni – e attraverso testimonianze che finiscono per attribuire al ragno e al tarantismo singolari significati sia sul piano più propriamente medico-scientifico, sia su quello allusivo e metaforico. In questo quadro, acquista speciale pregio la ricostruzione del dibattito settecentesco – congiuntura in cui l’“ideologia della tarantola” venne definitivamente screditata (tanto che si può arrivare a sostenere che l’illuminismo napoletano abbia rappresentato per lo sguardo sul tarantismo il corrispettivo dell’Inquisizione) – arricchito dalle osservazioni dei molti viaggiatori del Grand Tour che si occuparono del tema, spesso peraltro copiandosi l’un l’altro (come ha già dimostrato Salvatore Epifani nel suo saggio “Sulla pizzica pizzica ed altre tradizioni salentine, note e documenti”, Youcanprint Self-Publishing 2013).
Sempre a proposito dell’animale tarantola – che alcuni autori chiamano «stellione» – nel secondo capitolo lo si rintraccia seguendo ulteriori riflessioni sul tema (di autori spesso celebri per quanto molto eterogenei, da Nicolò Machiavelli a Bernardino da Siena e Friedrich Nietzsche), come «simbolo e metafora di erudite anticaglie» ma anche di fraudolenza e di adulazione.
Il terzo capitolo invece, fra i più interessanti, propone una rassegna delle immagini più significative del tarantismo, che si rivelano anche singolarmente rare – se si escludono le documentazioni fotografiche e video realizzate nel secolo scorso – rispetto alla sterminata quantità di autori che se ne sono occupati. Scorrono allora i ritratti di una donna “di carnagione adusta” (cioè scura o forse abbronzata), dal vestito ricoperto di ragni e ai piedi gli strumenti usati nella “cura” secondo la celebre “Iconologia” tardo-rinascimentale di Cesare Ripa; i disegni di “falangi” e similari riportati in numerosi trattati di carattere scientifico-naturalistico fra cinque e settecento; il mirabolante repertorio di immagini e spartiti musicali proposti da Athanasius Kircher a metà del ’600 e poi ripresi da certi suoi seguaci; le “tarantole che saltano al suono della musica” del medico olandese Cornels Stampart ven der Wiel (1687), fino al prezioso disegno acquerellato del 1664 che ritrae “la danza di una donna punta da una tarantola”, opera di Wilhelm Schellinks, artista e viaggiatore che osservò la scena nei dintorni di Napoli, pregevole testimonianza della diffusione del fenomeno anche in Campania. A concludere la rassegna il particolare di una tavola allegata al “Voyage pittoresque” di un illustre erudito e viaggiatore francese settecentesco, l’abate di Saint-Non, che taccia come «ridicoli» e «stravaganti» i resoconti fatti fino ad allora, mentre ritrae davanti alla cattedrale di Trani un gruppo di “Musici e danzatori di tarantella” (scena che però riconduce, piuttosto che alle pratiche coreutico terapeutiche, ai balli popolari delle feste napoletane e regnicole, che attiravano anch’essi irresistibilmente l’attenzione dei viaggiatori stranieri alla ricerca del «pittoresco»).
Il capitolo successivo procede ponendo l’attenzione sulle riflessioni di alcuni riformatori settecenteschi meridionali – in particolare monaci, abati e naturalisti – sulla diffusione del fenomeno in riferimento alla Terra d’Otranto, ma non solo, assurto a “simbolo e metafora delle specifiche, particolari caratteristiche dell’Illuminismo pugliese sospeso fra capitale e provincia, fra scienza nuova e pregiudizio popolare, fra tradizione e modernità”.
Nel quinto capitolo infine si analizzano le vicende dal “morso oscuro” fra otto e novecento, quando la tarantola diventa una sorta di presenza metaforica in ambito letterario, a partire dalla polemica contro il “negazionismo” degli intellettuali napoletani e passando per i frizzanti ed entusiastici resoconti della viaggiatrice Janet Ross, oltre a noti letterati e poeti, per lo più non pugliesi, che in vario modo, a partire dai primi decenni del secolo scorso, si sono riferiti creativamente al ragno, al tarantismo e all’immaginario connesso: Giuseppe Ungaretti in “Preda sua”, scritta a Taranto nel 1933; Eugenio Montale nella lirica “Il ritorno” (1940); Vincenzo Cardarelli nel racconto “Villa tarantola” (del 1948 e parte di una raccolta omonima vincitrice della seconda edizione del Premio Strega, singolarmente ambientato nella Maremma laziale e in particolare nei «giardini dei morti» che circondano Tarquinia, contesti – secondo lo scrittore – così prediletti dalla “Taréntula Apuliae” da far pensare che «porti nel suo grosso ventre il veleno delle tombe etrusche»); la scrittrice tedesca Ingeborg Bachmann sedotta dal Sud “ctonio” in “Apulia” (1955); Salvatore Quasimodo appena insignito del premio Nobel per la letterature nell’immaginifico (e un po’ inquietante) commento del documentario “La taranta” di Gianfranco Mingozzi (1962); Mario Luzi con la poesia “Presso il Bisenzio” (1963).
A questi cinque saggi/capitoli segue, come già accennato, la parte più ampia e significativa del volume, che comprende corposa selezione ragionata di documenti originali, spesso tradotti per l’occasione e preceduti da puntuali introduzioni che orientano il lettore nella esondante letteratura sull’argomento. L’antologia viene divisa per categorie: “Letterati”; “Autori di opere teatrali” (che risultano in numero sorprendente, e già oggetto di un recente studio di Brizio Montinaro, “Il teatro della taranta. Tra finzione e simulazione”, Carocci 2019); “Storici”; “Predicatori” (quasi tutti secenteschi ricorrono al ragno come metafora del peccato e del demonio con costruzioni retoriche spesso stravaganti, che sarebbero da approfondire per provare a illuminare l’atteggiamento della Chiesa nei confronti del fenomeno); “Viaggiatori” (frequentemente alla ricerca delle similitudini con «le orge di Bacco e Cibele»); “Enciclopedisti”; “Naturalisti e filosofi”; “Medici” e “Musicologi”.
Il contributo di Sisto si rivela dunque una sintesi puntuale e preziosa, in cui trovano il giusto spazio testi sconosciuti o comunque poco noti, affermandosi d’ora in avanti come imprescindibile riferimento bibliografico. Nell’ampio resoconto l’unica criticità che mi pare di dovere rilevare – nonostante diversi passaggi dimostrino che la questione non sia ignorata – è la costante attrazione “Puglia-centrica”, mentre è ormai ampiamente noto quanto il fenomeno si estendesse ben oltre quella che comunque resta, per citare de Martino, la sua “terra elettiva”, andando a toccare in maniera significativa tutto il resto del Sud e le grandi isole, per arrivare fino in Spagna, in una affascinante dimensione “mediterranea” evidentemente ancora non sufficientemente compresa – anche nelle sue conseguenze interpretative – e ampiamente ancora da indagare.
Vincenzo Santoro