Il primo decennio di Steeleye Span


Alla fine di quello stesso anno il gruppo registra il secondo disco "Please To See The King" (1971): “The Blacksmith” viene re-interpretata a inizio disco, ribadendo un concetto “femminista” ante litteram, di garbata presa per i fondelli a riguardo la virilità maschile (che nella tradizione viene impersonificata dal maniscalco), da parte della donna in questione. “Prince Charlie Stuart” è invece l'epitaffio funebre di una popolana in memoria del re decapitato; è da notare che, contrariamente alla cultura aristocratica che descrive la donna come un "frutto da cogliere" o una "fonte di peccato" (o di guai), la ballata popolare la descrive spesso più ribelle e rivoluzionaria dell'uomo. La conclusiva “Lovely On The Water” raggiunge un livello epico e lacerante mai udito prima nella folk music anglosassone. Le due chitarre elettriche in accordo con il basso svolgono uno stupefacente controtempo ritmico a sostegno del violino e della voce della Prior, gli arpeggi paiono possedere ancestrali echi lontani da cornamusa. Maddy aveva già imparato frasi di “Female Drummer” sui banchi di scuola per poi ritrovarla nella sua integrità all’interno di un folksong journal. Queste lontane canzoni giunte dal passato tendevano a delineare una complicità pressoché totale e una intimità costante tra individuo e i luoghi in cui viveva. Se l’uomo della terra non era perfettamente a conoscenza della natura che lo circondava, entrava facilmente in conflitto con essa. Allora era questa la scommessa della vita, le genti tradizionali non si trovavano di fronte i muri che tecnica e scienza avrebbero in seguito innalzato in ogni campo tra creatura e creazione. 
Prima del termine dell’anno viene pubblicato anche il terzo disco "Ten Man Mop Or Mr. Reservoir Butler Rides Again" (1971). Il titolo significa “10 uomini stagionali” essendo “mop” una “fiera di assunzione” (eventi regolari in Inghilterra e Irlanda pre-moderne, in cui i lavoratori venivano assunti a tempo determinato) mentre Reservoir Butler era il nome di un cantante che Tim Hart conosceva e con cui aveva collaborato. Preannunciato da una sensazionale e corposa partecipazione al John Peel del 26 settembre 1971, alla fine dell’anno il terzo disco del gruppo, dal titolo lunghissimo, è immediatamente acclamato come miglior prodotto folk. Senza rivali visto che gli altri due concorrenti musicali avevano preso strade sempre più lontane dal folk inglese: i Fairport Convention con “Babbacombe Lee” reinventando moduli tradizionali in chiave country americana e i Pentangle con “Reflection” accostandosi viepiù a sonorità jazzistiche. Tim canta “Skewball” al banjo, tutti i contrappunti, le elaborazioni, i duetti, gli impasti corali sono allo zenith in ognuna di queste canzoni, l’agghiacciante “When I Was On Horseback” su tutte, variante irlandese di una canzone che in America ha originato le celebri “Streets Of Laredo” e “St. James Infirmary”. “Captain Coulston” dal canto suo, possiede un raffinato tappeto sonoro di chitarre elettriche su cui si snoda un complesso assolo di violino finché il tutto non sfocia nel finale di una trascinante giga. Ashley Hutching però desiderava già altre avventure e se ne andò, lo rimpiazzerà Rick Kemp (già collaboratore fisso di Michael Chapman), Martin Carthy non gradì la cosa (avrebbe preferito John Kirkpatrick e la sua concertina) e abbandonò anche lui che, per l’unica volta in tutta la sua lunghissima carriera, in questo combo aveva imbracciato una chitarra elettrica! Gloria a Martin Carthy, insignito del titolo onorifico di Sir per meriti artistici nel 1998 e, nonostante sia un gigante, venuto il 22 ottobre del 1999 a Sanremo al Premio Tenco ad accompagnare la moglie Norma Waterson con la modestia di un comprimario qualsiasi. Rick Kemp e Bob Johnson erano all’epoca due perfetti sconosciuti nell’ambiente musicale inglese. Il primo, bassista elettrico più aggressivo di Ashley Hutchings e anche più vicino al suono rock, il secondo che aveva già suonato in duo con l’amico Peter Knight qualche anno prima, era chitarrista più percussivo di Carthy. Il loro arrivo rappresenta un cambiamento epocale, musicalmente un salto nel vuoto, un secondo inizio per Steeleye Span anche se il repertorio comprende sempre brani tradizionali ricavati in buona parte da “The English and Scottish popular ballads” di Francis James Child. "Below The Salt" (1972) è anche la prova che talvolta i miracoli artistici accadono. Non c’è
un solo attimo di scadimento emotivo nelle sue murder ballads, dalle sofisticate polifonie vocali della sessual-farsesca “Rosebud In June” (cantata all’unisono e in maniera sia ancestrale che pagana da tutti i musicisti) alla cesellatissima “Royal Forester” (con la melodia della Prior che è una giga a cui si attorciglia il violino ostinato), dalla rarefatta e corale “John Barleycorn” alla terrificante, metallica e sanguinolenta “King Henry”, attraversata da sonorità da incubo. Una ballata lunga, multiforme, densa di cambi, cantata in duo da Johnson e dalla Prior, con passaggi a cappella e variazioni in equilibrio perfetto che richiamano danze macabre, raga indiani e musica tzigana. Le fate, nel concetto celtico, sono divinità femminili che hanno bisogno degli uomini per rigenerarsi (un po’ come le Amazzoni), senza maschi vivi non riuscirebbero a donare la loro ricchezza e fecondità all’Universo. Frequenti nel mondo arcaico, da cui provengono queste ballate, sono anche le tradizioni che descrivono spedizioni nell’aldilà, straordinarie testimonianze metafisiche ad opera di popolazioni dominate materialmente ma al contempo dedite a sorprendentemente alte meditazioni intellettuali. A partire da questo quarto disco le canzoni scelte e arrangiate dagli Steeleye Span dipingeranno sovente oniriche scene a tinte laceranti, scure, fantastiche e misteriose. Il gruppo si avventurerà su un terreno musicale dove agiscono campi che rendono minacciosa e incombente la materia sonora. Testi tradizionali e suoni nuovi saranno uno dei suoi punti di forza. Le scene descritte rivelano un uomo, inserito nei meccanismi della Natura, in cui in numerosi casi esplode tutta la sua crudeltà atavica, altrove invece è letteralmente schiacciato dall’ineffabilità violenta di regole sociali riferibili a schemi arcaici. Il gruppo ha saputo creare in perfetto equilibrio, il miraggio d’illusione musicale folk che ha portato le finzioni ad avere tutte le qualità delle storie vere. L’uomo descritto appare completamente avvolto dall’idea delle ritualità iniziatiche, liturgiche, mitologiche o divinatorie in una poetica che vive di riferimenti lontani, di campi d’ispirazione che vanno ricercati nell’archeologia dell’essere vivente. Lì si trovano la sua passionalità, la sua spiritualità, il suo destino. Al momento dell’uscita del quinto disco "Parcel Of Rogues" (1973) gli
Steeleye Span con una mano invitavano ad entrare nella Cecil Sharp House di Camden in Regent’s Park Rd, con l’altra reggevano il folk con strumenti quasi del tutto elettrificati e taglienti. La trasformazione dell’arte popolare attraverso la propria tecnica è stata fin dall’inizio il tratto caratteristico di questa formidabile band musicale. La pesantezza di un accordo di basso elettrico suonato con il plettro, trasformata attraverso distorsori e vibrati che ne prolungavano e ingrossavano le sonorità secche, arricchiva la dinamica che reggeva l’intero progetto, facendo così risaltare le linee scarne, a carattere percussivo, della sua struttura ritmica. I confini tra umano e fantastico sono spesso incerti in queste canzoni. Rileggerne i testi dopo secoli equivale a estrarli dal proprio humus e tradurli in una lingua differente e sconosciuta, facendo loro inevitabilmente, prendere nuova forma. Sono rappresentazioni di corpi e anime, delizie di cielo e pene d’inferno innestate nelle vite dei protagonisti, delle loro azioni e delle loro voci che uniscono l’antico al contemporaneo in solenni versificazioni, in sorprendenti sillabazioni. Queste canzoni manifestano magiche trasformazioni e onnipotenze inspiegabili, amori e istinti di aggregazione traditi, viaggi e fughe attraverso sogni, ponti, mondi e foreste. Tra le loro righe tutto può diventare possibile come in un inconscio collettivo dove è richiesto un coraggio oggi senz’altro sconosciuto. Dove chi non comprende i suoni delle labbra della notte non avrà mai quiete per ricompensa, chi non andrà coraggiosamente a caccia degli uccelli della felicità finirà in una gabbia e chi discenderà pozzi con la corda dell’incertezza coglierà la luna nell’acqua. Utilizzano espressioni crude o trascendentali, descrittive o epiche perché i loro anonimi autori non usavano linguaggi astratti da scrittori colti ma sono opere poetiche create da qualcuno in risposta a bisogni reali di sopravvivenza. Risultato e prodotto di vicende e consuetudini lontane ma un tempo realtà quotidiane. La notevole unicità d’insieme aveva condotto l’affascinate voce acuta di Maddy Prior alle copertine del Melody Maker. La riscoperta del proprio folklore aveva rappresentato anche uno smarcarsi dalle consuete matrici blues afro-americana ma oramai il richiamo del rock era evidentemente diventato troppo forte. Certamente, sia folk che rock rappresentano culture popolari ma decidere di inserire la batteria nel gruppo equivalse anche a un cambiamento sostanziale: il basso non avrebbe più avuto l’onere di sostenere da solo la sezione ritmica. Un punto di non ritorno. E così avvenne con "Now We Are Six"
(1974). Il crescente successo commerciale non dev’essere stato estraneo alla decisione, in fondo Steeleye Span si stava avvicinando alla popolarità delle stelle della musica rock anglosassone e quello del singolo natalizio “Gaudete” era stato il colpo decisivo. La Chrysalis Records fece le cose per bene: l’amico Ian Anderson (dei Jethro Tull) fu trasformato in “consulente di produzione” del disco e basta ascoltare “Thomas The Rhymer” per ipotizzare che il pezzo avrebbe potuto tranquillamente figurare in “Aqualung”. Ho la netta sensazione però che valga ancor più il discorso inverso, ovvero che il celebre flautista abbia incamerato numerose ispirazioni dalla vicinanza a un reale gruppo folk di tale portata. Addirittura David Bowie offrì un cameo sax old-fashioned in conclusione del disco, i suoi “occhi vitrei” sono davvero fuori luogo in questa sede, diciamo che aveva la “scusa” di essere stato, in gioventù, compagno di scuola con un membro degli Span. La critica non fu tenera nei riguardi di queste scelte commerciali del gruppo ma il modo in cui i musicisti risolvono in tempo di morris “Drink Down The Moon” con quell’atmosfera incantata ad opera di voce, mandolino, oboe e dulcimer, risulta magistrale. Pesa l’assenza degli oramai classici corali a cappella ma il cantus firmus degli Steeleye Span poteva riuscire ugualmente a portare l’ascoltatore a far parte della brigata del Terzo Ussari reali come a farlo sentire contadino delle fredde plaghe del nord. Grazie a chitarre distorte, violino col wa-wa e alla voce di cristallo prezioso di Maddy Prior, il linguaggio folk moderno degli Steeleye Span aveva rivitalizzato in maniera definitiva l’antico paganesimo britannico. Accanto alla ricerca musicale, sempre più importanza nei concerti assunse in questo periodo, anche quella spettacolare attraverso lo splendore delle rappresentazioni dei mummers. Nell’impressionante e amara serie di quadretti grotteschi, surreali, boccacceschi e talvolta mostruosi contenuti nel seguente disco "Commoners Crown" (1975), i protagonisti delle canzoni creano situazioni solenni o mitico-eroiche legate a una
iconografia epica popolare di ambientazione tipicamente anglosassone, le filastrocche seppur favolistiche, scivolano in macabro e nell’orrore nel giro di pochi versi. I sinistri drammi che serpeggiavano negli angoli di quei piccoli villaggi rurali, nelle vite spaventate da malvagità, sangue e male rappresentato, ad esempio, da “Long Lankin”. È la morte, quasi sempre, la protagonista di queste canzoni pre-industriali, dove la paura è esoterica espressione delle lande selvagge in cui vivono gli spiriti vendicativi che si oppongono alle forze che pretendono invece di imbavagliarli con convenzioni culturali o ricatti economici. Le parole e l’evoluzione letteraria di queste ballate sembrano contenere tuttavia riferimenti di fondo a svariate attualità: una tale dinamica è evidentemente di origine celtica. La potenza e l’incisività delle immagini, i simboli stessi che le sostengono, non fanno che prolungare le apparenze di questi testi in direzioni ardite. Nel caso di “Little Sir Hugh” sono addirittura dimostrazione che l’idea dello sterminio ebraico era già presente nella riflessione rabbinica medievale. A metà anni ‘70 per l’ascoltatore contemporaneo incontrare antiche usanze senza comprenderle, dona loro una nuova anima, significati pittoreschi, fantasiosi, accattivanti. Molte disavventure o solitudini rurali, in paesaggi deserti o ostici, sono all’origine di credenze popolari e miti che sono finiti nella letteratura orale contadina e quindi anche nei canti tradizionali. In questo disco un universo di dèmoni affascinanti, contadini ingenui, assassini spietati, piccoli elfi e altri personaggi dotati di poteri soprannaturali si mescolano. Che siano benevoli o malefici, caritatevoli o terrificanti, i loro comportamenti di fronte agli umani prendono sempre un valore di insegnamento o premonizione. L’evasione dalla realtà che possiedono le canzoni popolari, attraverso un gioco fantastico, conduce sempre a un’altra realtà di enigmatica correlazione tra mondo terrestre e mondo dell’aldilà. D’altra parte, non va dimenticato, che la maggior parte della gente viveva vicino a campi cimiteriali di tombe e croci, secondo cicli stagionali, a stretto contatto con animali selvatici, in sperdute borgate o villaggi di poche centinaia di abitanti. Dominati da una natura spietata e quasi sempre soggiogati da potenti re, arroganti ricchi e da una immancabile chiesa, severa e incombente sulle misere casupole. La visione idilliaca della vita bucolica e dei pittorici giardini inglesi disegnati da grandi artisti sono invenzioni assolutamente moderne! Nel 1975 nuovi dèi musicali appaiono però all’orizzonte, gli stili cambiano, la scena folk-rock britannica si trova in crisi di interessi e di pubblico, Steeleye Span arranca ma non può diventare un gruppo di nicchia, alla Cecil Sharp House, tempio della musica tradizionale, le loro foto troneggiano bene in vista. “All Around
My Hat”
 (1975), dal mio punto di vista, è musicalmente il punto più ruffiano della loro prima parte di carriera. L’omonima canzone descrive il corteggiamento in un mondo rurale e contadino che appartiene all'età edoardiana, epoca definitivamente tramontata in Inghilterra dopo la Prima Guerra Mondiale. In quel periodo il malcontento politico era palese, ma la resa scanzonata degli Span lo stempera facendola persino apparire quasi come umoristica. In tutti i dischi del gruppo viene descritta una umanità che spesso si trova in balìa delle onde, non solo quelle del mare ma anche sulla terra. Ogni sorta di sopraffazione si poteva celare dietro l’apparente aria di mitezza, bonarietà o gentilezza di un individuo. La giovane vita di figli, mariti e innamorati veniva, all’occorrenza, presa in possesso da esercito, possidenti, avidità, malefici, così come dal perbenismo della società che li conteneva o ospitava. Le famiglie stesse erano sovente fraterne, intime, composte da parenti intrecciati, incorporavano e contemplavano situazioni barbare oggi inimmaginabili e nella quasi totalità da “codice rosso” o meglio, “codice penale”. Nelle pagine dei racconti sublimati dalla voce cristallina di Maddy Prior, gentiluomini galanti e donzelle bendisposte si possono trovare inaspettatamente di punto in bianco al cospetto dell’impetuosità di soprusi e ambizioni di fratelli o sconosciuti. L’amore romantico e occasionale sembrava una costante e quello duraturo un’eccezione. Lontani i culmini creativi sonori della prima metà del decennio, perduto in parte il nitore della propria intonazione ed espressione musicale, il gruppo revivalista inglese si guarda un po’ intorno, pur mantenendo una sua connotazione stilistica generalmente rispettabile. "Rocket Cottage" (1976), nono
disco, possiede qualche leggero intervento orchestrale, viene inciso in Olanda e la confusione incombente si percepisce, comunque, seppur in numero minore, i tentativi di attualizzare i richiami tradizionali fanno riaffiorare nuove inedite sfide sonore. Ascoltando molta opera del folk revival europeo si riceve una preponderanza tematica alla vita interiore, un’orientazione verso il misticismo come se tutto sulla terra risultasse apparente o falso, tranne l’invisibile. Si percepisce l’immaginario dietro il reale, la metafora dietro l’accadimento, l’insegnamento dietro la rivelazione. Trattasi di un ambiente naturale dove non ci sono differenze di linguaggio, gli alberi parlano come gli uomini, gli animali pure, si possono incontrare per caso in strada angeli o démoni, le metamorfosi sono indossate come abiti a fin di bene o a fin di male. I luoghi emanano sortilegi e incantamenti, il tempo impregna e manipola gli esseri viventi così come le cose, persistendo nelle carni, nelle memorie, nei costumi, nelle pietre. L’immaginazione è creatrice, gli spiriti si impersonificano, il simbolismo è imperante. All’interno di Steeleye Span sostituire Peter Knight e Bob Johnston con John Kirkpatrick e col ritorno di Martin Carthy non è cosa da poco ma l’idea viene da lontano. La scaletta di "Storm Force Ten" (1977) rivela a prima vista già molte cose, gli unici due brani non tradizionali recano la firma militante nientemeno che del padre del teatro moderno europeo, il drammaturgo Bertolt Brecht. La fisarmonica sposta la sonorità generale dell’ensemble verso una espressività nuova ma la recente tempesta ha purtroppo spezzato gli alberi di legno e naufragato il veliero del gruppo: lo evidenzia bene il titolo del decimo disco. Il vento della Manica restituisce il relitto alla terraferma. Una pelle di nebbia circonda sovente il mondo delle canzoni in esso contenute dove la sfortuna è un rischio assolutamente ordinario. Leggi spietate o imbrogli d’ogni sorta trasportano i protagonisti verso destini ignoti dove le tonalità di grigio presto diventano quotidianità. Assai più raro è incontrare invece una pace profonda e serena al posto di una serie di prove e di interrogazioni continue su sofferenze radicali, in grado di trasformare chiunque in vittima di casualità o necessità superiori. Nei magistrali
quadretti degli Steeleye Span si intuisce tutta la miseria e la grandezza della Storia, l’universalità delle aspirazioni, le contraddizioni dei sentimenti e la coscienza dei limiti umani. La volontà personale di superare, anche col crimine, le fatalità e le avversità e poi l’angoscia diffusa e dolorosa che circonda sempre gioie e vittorie, in guerra come in pace. In molti casi si tratta anche del rimpianto per quelle cose sconosciute e inafferrabili, intraviste attraverso l’anima. Il loro folk ha animato appassionatamente lungo molti anni, la descrizione di territori e di una umanità di figure popolari, con i loro costumi e i loro mestieri, i loro sforzi e i loro destini, la loro bontà e la loro perfidia. I canti di Maddy Prior hanno mescolato fantasia e poesia, splendore e ombre per molti ascoltatori. Si arriva così al concerto finale contenuto nell’undicesimo disco "Live At Least" (1978). Bornmouth, Dorset, costa sud inglese, cittadina che a vederla da lontano appare un lungo agglomerato di case in stile coloniale con il bianco dei terrazzi e dei colonnati che acceca gli occhi. L’aria è quella da epoca vittoriana. Il Winter Gardens era un teatro costruito nel 1875 ma che solo qualche anno dopo (1893) iniziò a ospitare concerti di musica classica, oggi non esiste più, è stato demolito definitivamente nel 2006. John Kirkpatrick è stravaccato su una sedia come fosse all’osteria, la fisarmonica in lontananza conferisce al pezzo un vago sapore di bistrot parigino mentre il modesto Martin Carthy imbraccia un’altra volta, udite udite, una vecchia Fender Telecaster. Proprio lui, l’austero e leggendario revivalista che un giorno del 1998 verrà insignito del MBE (Ordine dell’Impero Britannico) accettato (dopo parecchie titubanze dovute al significato imperialistico) solo perché riconoscimento all’intera musica popolare inglese. Colui che nel 1974 sedeva in studio a Parigi a fianco di Gabriel Yacoub mentre si registrava il disco d’esordio di Malicorne. O che dieci anni prima aveva fatto conoscere al giovane Bob Dylan quelle antiche melodie tradizionali inglesi che tanto influenzarono le sue prime canzoni (senza dimenticare Paul Simon con l’altrettanto famosissimo “parsley, sage, rosemary and thyme”). Durante lo spettacolo di commiato furono eseguiti anche alcuni brani che non erano mai apparsi in alcun disco precedente come ad esempio “The Maid And The Palmer”. In epoca elisabettiana la musica godette di larghissima diffusione sia all’interno delle classi povere della società inglese che dell’aristocrazia. Lo stesso Shakespeare ne fece grande uso a
teatro, rappresentando sia la corte reale che le atmosfere di baldoria tipiche della drinking scene, con tanto di cori da taverna e canzonacce scurrili. In alcune rappresentazioni l’atmosfera drammatica si alterna a quella “brilla” di frasi sconclusionate, versi burleschi e frammenti di canzoni popolari. L’esecuzione musicale più impressionante dell’intero concerto risulterà l’inedita e lunghissima saga di “Montrose” che, con i suoi inserimenti e arrangiamenti strumentali, uniti a un impianto poliritmico e polivocale, appare vero e proprio testamento a riassunto di tutta la loro storia. Nelle canzoni del gruppo ha vissuto una lunga sequenza di gente di strada, bella e brutta, scaltra o ingenua, minatori abbrustoliti e abili tessitrici, ubriaconi incalliti e puttane avvenenti, agricoltori instancabili e pescatori marci, imbroglioni di ogni sorta e fattucchiere ammalianti, predatori voraci a quattro o a due gambe. Presi da villaggi immaginari o naufragi spaventosi, da castelli sconosciuti o bicocche anonime, trasformati dalla creatività dell’immaginazione popolare e portati dal suo talento in mezzo alle righe delle canzoni. Cinque giorni dopo quel concerto, i giornali inglesi riporteranno l’ufficialità dello scioglimento di Steeleye Span dopo dieci dischi, uno d’oro e cinque d’argento. Chapeu, Signori! 

"dedicato a Patrizia, cantante lirica che amava gli Span e se n’è andata così presto"

Flavio Poltronieri

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