Abdallah Oumbadougou – Amghar: The Godfather of Tuareg Music - VOL. 1 (Petaluma, 2024)

C’è qualcosa di magico nelle sei corde della chitarra, anche suonate solo a vuoto con la sola mano destra, come se fosse un’arpa o una kora. Ne scaturisce un sapore pentatonico che porta alla ripetizione continua e catartica. Poi, quasi incidentalmente, con l'altra mano si pigia sul terzo tasto della terza corda e si inserisce quel mood tra il malinconico e il dissacrante delle blue notes. Che ci si trovi nel Texas degli anni ‘40 di Robert Johnson o nella Napoli di Pino Daniele, quella scala è un lamento di dolore, protesta e liberazione, un universale musicale che accomuna diverse parti del mondo, lontane geograficamente ma vicine per condizione sociale e umana. In questo caso siamo nel Sahara e lo stile in esame viene definito mediaticamente appunto blues del deserto. Abdallah Oumbadougou (1962-2020) è un’icona della chitarra taguir e di questo stile. L’etichetta Petaluma ci proporne una compilation di quattordici suoi brani rimasterizzati e diffusi su un doppio CD\LP. Il grande chitarrista autodidatta fa scivolare la tradizione del suo Niger nel topos del blues con naturalezza e senza soluzione di continuità tra i due generi, ricordando così la condizione nomade intrapresa da parte della sua popolazione, in seguito alla protesta nei confronti dei regimi dittatoriali, di cui le sue canzoni sono diventate degli inni. Per la prima volta, Amghar: The Godfather of Tuareg Music, vol.1, pubblicato da Petaluma Music, raccoglie le registrazioni in studio che Oumbadougou fece nel primo decennio del XXI secolo – molte delle quali inedite – per creare un’ampia panoramica del lavoro di un rivoluzionario. Chitarrista e leader della comunità il cui impatto nella diffusione della consapevolezza della musica e della cultura Tuareg non può essere sopravvalutato. Nel corso della sua straordinaria vita, Oumbadougou si ritrovò letteralmente a lottare per la cultura, l’identità e il diritto di essere ascoltati del suo popolo. Una figura fondamentale nello sviluppo di quello che il pubblico occidentale ha definito “desert Blues” o “Tuareg rock”, ma che originariamente era conosciuto come assouf, che significa “desiderio”, “nostalgia”, “il dolore che non è fisico”. In Tamashek, la lingua dei Tuareg; un gruppo ampio e diversificato di popoli che popolano il Sahara in una vasta area dell'Africa nord-occidentale, “Amghar” – termine berbero per un capo tribù – è un riferimento al ruolo dell'artista nel plasmare questa cultura e sostiene il leggendario status di Oumbadougou come strumentista, narratore e degno eroe della chitarra rock. In effetti, i primi lavori di Oumbadougou furono determinanti nell’influenzare gli attuali musicisti tuareg di successo come Mdou Moctar, Bombino e Tinariwen che dicono di lui: “Per noi è stato come un padre. Come la nostra prima ispirazione», racconta Bombino, la superstar tuareg nigerina, divenuta sua amica intima a metà degli anni Novanta, quando la stella di Abdallah era al suo apice. “È stato tra i primi musicisti a portarci la musica e portarla lontano. Ci ha dato la possibilità di conoscerlo”. Nella musica di tradizione orale di tutto il mondo vi è un’elettività collettiva verso alcuni artisti che scelgono come loro rappresentati di tutta la comunità, così è stato per il Nostro che fin dai suoi inizi come autodidatta ha dimostrato di essere stato il migliore e perciò degno di rappresentare tutto il suo villaggio e non solo. Nato in un minuscolo villaggio nel profondo deserto del Niger settentrionale, Oumbadougou è cresciuto durante un periodo di transizione sociale, sfide ambientali e conflitti politici per i popoli nomadi del Sahara. Da adolescente riuscì a imparare la chitarra mentre lavorava come minatore, e presto divenne un artista regolare in raduni improvvisati di minatori e matrimoni nel villaggio locale. Tuttavia la regione era sprofondata nella siccità e presto si ritrovò tra il vasto numero di nomadi della regione ora sfollati e espropriati. Nel 1985 Oumbadougou si recò in Libia per sottoporsi ad un addestramento militare insieme a migliaia di altri gruppi tuareg che avevano accettato l’invito di Muammar Gheddafi a formare una legione rivoluzionaria sahariana. La musica era parte integrante della coesione di questi campi di addestramento, e fu qui che Oumbadougou incontrò una versione nascente dei Tinariwen, un altro gruppo che avrebbe notoriamente reso popolare il genere Desert Blues. Oumbadougou fondò il proprio gruppo di musicisti sotto il nome Takrist Nakal, che significa “ricostruzione del paese” e rifletteva così le aspirazioni di un movimento tuareg unificato. Sebbene il loro stile musicale differisse da quello di Tinariwen, con maggiori ornamenti e ritmi cadenzati più lenti e allegri, Takrist Nakal fu una parte essenziale dello stesso meccanismo di rivoluzione musicale, e le due band strinsero un'amicizia che sarebbe durata tutta la vita. “Ricordo Abdallah quando eravamo giovani”, dice Ibrahim ag Alhabib, uno dei fondatori di Tinariwen. “Era parte della storia, e forse non c’è abbastanza su di lui adesso nella storia. Penso che abbia dato qualcosa di importante al Tamashek, un messaggio per i giovani”. Nel 1990 Abdallah ha combattuto con una milizia rivoluzionaria contro il regime autoritario del Niger come parte della più ampia ribellione tuareg che ha avuto luogo in Niger e Mali e che è durata per cinque anni. A questo punto, la musica di Abdallah Oumbadougou si era diffusa organicamente in tutta la regione del Nord Africa, spesso attraverso cassette registrate su stereo e diffusa attraverso il passaparola. Utilizzando sia la sua chitarra che il fucile Kalashnikov in egual misura per combattere per il suo popolo, Oumbadougou era diventato la voce della ribellione a tal punto che la sua musica era un prezioso strumento di reclutamento ed essere trovato in possesso di una cassetta da Takrist Nakal o Tinariwen era spesso considerato motivo di reclusione. Il disco comincia con “Tigrawahi Talgha” con ritmo di gnawa e con il riff melodicamente speculare alla melodia del canto; la spola ionio-dorico ricorda il lento cammino dei nomadi nel deserto. Il secondo brano “Iwitian Ourgueza Gueakelen” parte con un’introduzione non misurata nello stile dell’oud e poi si stabilizza su un ostinato ritmico, il brano alterna momenti narrativi del cantante solista con interventi corali, l’armonia è di tipo stanziale su un solo accordo. Segue “Iwouksane” in cui l’intervento del darabukka spinge dinamicamente in avanti, entrano gli strumenti etnici sul tappeto degli archi e il gioco armonico si svolge tra tonica e dominante. Ambientazione decisamente americane che quasi ricordano il Dylan elettrico nella ballata “Imidiwan” e anche “Nigsar Tenere He Ténéré” crea atmosfere rock che si presentano sin dall’inizio e la spola strutture I-II vi appare netta. “He Tenere” presenta un’armonia di tipo stanziale con un minimo movimento del basso e un riff ostinato della chitarra elettrica che alla fine si lancia in uno sfrenato assolo. “Illilagh Teneré” ha quasi un carattere da fingerstyle in sol nello stile della kora suonata dai griot, l’intervento delle blue notes dà al brano un sapore rock-blues. In “Dague Oudouniya Zagzag Bass Tchilla” la struttura del primo blues molto (I-V-IV) marcata, al punto da ricordare lo stile del Robert Jonsohn. “Sarho Nawan” è un’altra ballata in stile griot a struttura responsoriale. “Afrikya”, è un delicato brano che dell’Africa sembra far emergere l’aspetto della sofferenza interiore che gli strumenti si limitano a commentare con i loro riff spezzati. “Tenertin Taranin Tenertine Ounour Nin” presenta ancora un ritmo gnawa e “Tabsiq Dalet” ha una introduzione virtuosistica con bel groove creato dalle chitarre e su cui si incastona la voce solista e le risposte corali. La traccia finale, “Wirhin Titiwé Tchi Higren”, pone in evidenza le percussioni con chitarra e voci in sfondo, quasi un effetto da scacciapensieri. A parte il valore simbolico di questa esemplare operazione, il lavoro è veramente da ascoltare con attenzione per il suo valore estetico, per la cura degli arrangiamenti e delle registrazioni, e infine, aspetto fondamentale, per la estrema godibilità catartica dell’ascolto che lascia l’insaziabile bisogno di un continuo riascolto. 


Francesco Stumpo

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