Massimo “Max” Giuliani è un nome noto ai lettori più attenti; autore, negli anni, di apprezzati interventi su diversi siti e principalmente attivo sulle pagine del suo Radiotarantula, ha anche dato un importante contributo alla riscoperta dell'arte di Maurizio Angeletti, curando la riedizione del suo vecchio e glorioso saggio “American Guitar”. Forte di una solida esperienza, oltre che della personale confidenza con molti artisti della scena italiana attuale e non, Giuliani pubblica ora il suo lavoro certamente più ambizioso, curando una raccolta di trentatré conversazioni intorno alla chitarra steel string. Pier Luigi Auddino lo ha raggiunto per andare a fondo sulle storie di volume.
La prima domanda è la più banale ma anche la più difficile. Perché?
Perché forse volevo scrivere il libro che mi sarebbe piaciuto leggere. Nella mia vita ho avuto periodi in cui sono stato molto legato alla chitarra, alternati a periodi in cui guardavo mestamente la custodia chiusa. L’impossibilità di raggiungere un livello del quale sentirmi soddisfatto mi faceva domandare se non fosse meglio dedicarmi ad altro. Però la chitarra è sempre stata al centro dei miei pensieri. La forma, l’odore, la fisica di quell’oggetto esercitano su di me un fascino formidabile. Divoravo la rivista “Chitarre” dell’era Andrea Carpi, poi in seguito un po’ meno. La storia di tanti è che se sei cresciuto negli anni ’70 ti appassionavi alla chitarra perché c’era della musica che ti faceva venire voglia di metterci le mani. C’era il folk, c’era il blues. Soprattutto c’erano i cantautori. Usavamo pensare alla musica come fatta di “generi”, magari con qualche rigidità “identitaria”, ma comunque i generi corrispondevano a delle storie, a vicende
culturali. Poi un giorno si cominciò a dire cose tipo “che genere suoni?”, “ah beh, io suono fingerstyle”; “che musica ascolti?”, “a me piace la guitar music”. Che erano delle etichette che facevano sparire quelle storie che per noi erano state importanti. Che significa? “Fingerstyle” non è un genere, è una tecnica! La musica che piaceva a me era diventata una specie di notte in cui tutte le mucche sono nere (e suonano “fingerstyle”…). Ma il libro ha dei precedenti. Qualche anno fa avevo fondato Durango, una piccola casa editrice digitale con cui avevo ripubblicato in ebook “American Guitar” di Maurizio Angeletti, un libro che era stato una bibbia della mia giovinezza. I mesi passati a lavorarci con lui sono un ricordo importante. Da giovane avevo fatto dieci anni di radiofonia, poi le fanzine, poi in anni più recenti avevo cominciato a parlare di musica sul mio blog e ora scrivo su FreeZone, la rivista elettronica fondata da Gianni Zuretti. Mi è sempre piaciuto scrivere, parlare e leggere di musica. È stato in una chattata nell’estate del 2021 che Aronne Dell’Oro mi mise la pulce nell’orecchio, mi suggerì l’idea di un libro come questo. All’inizio mi dissi: no, è difficilissimo. Però mi misi a pensare a un libro sulla storia della steel string in Italia. L’incoraggiamento definitivo mi arrivò da Claudio Sanfilippo e da Val Bonetti (che conoscevo perché aveva lavorato con Claudio: qualche anno prima lo avevo cercato per prendere lezioni e riparare i danni di una vita da scellerato autodidatta).
Trentatré interviste a musicisti anche molto distanti, nel tempo e nello spazio, per ispirazione, indole e "successo". Con quale criterio li hai scelti?
Unico criterio è stato quello soggettivo ma insindacabile del mio gusto e della mia responsabilità. Ho scelto musicisti che mi stavano a cuore e che fossero dei testimoni della storia che volevo ascoltare. I trentatré (più due, perché in due casi al fianco del chitarrista c’è la compagna che completa la formazione) non sono, naturalmente, tutti quelli che rispondono a questi requisiti, ma tutti quelli che stanno nel libro rispondono a questi requisiti. Li ho scelti per disegnare la mappa di un territorio che mi stava a cuore.
Nel finale del libro mi sono tolto lo sfizio di prendere la parola e di spiegare quello che penso della piega che ha preso la chitarra da un po’ di anni in qua: da un certo punto di vista quel capitolo è quasi pleonastico — già la scelta dei musicisti con cui ho conversato disegna una mappa — ma volevo metterci la faccia, volevo prendermi la responsabilità di argomentare i miei gusti e la mia convinzione che c’è della musica che racconta una storia e della musica che, come dire?, ci ha rinunciato. Ho fatto una scelta, esplicitata sin dal titolo (“Gente con la chitarra” non è la stessa cosa che “chitarristi”), quella di scrivere un libro non “chitarrocentrico”, distante da quel parlare di chitarra come se fosse solo roba di tecnica. Sono stato molto felice, per esempio, di avere nel gruppo Cati Mattea, che partecipò appena quindicenne all’avventura del Nuovo Canzoniere Italiano (e alla serata di Spoleto…), e che dichiaratamente non è una chitarrista, però è una testimone di una vicenda a cui la canzone d’autore deve parecchio. Poi avevo questo libro, “Guitar Cultures”, a cura di Andy Bennett e Kevin Dawe, che contiene un saggio di Peter Narváez sul “mito dell’acusticità”, che è quella pretesa di purezza della chitarra acustica che portò a contestare Dylan sul palco di Newport. Oggi secondo me il “mito dell’acusticità” si ritrova nell’esaltazione di un nitore un po’ esangue, in quella eleganza apulsionale di un certo fingerstyle. Peraltro anch’io durante il lavoro ho preferito abbandonare la definizione di “chitarra acustica” e parlare di “chitarra folk”: il fatto di essere amplificata o no è del tutto incidentale, non ne fa uno strumento “a parte”. Del resto, anche alcuni dei musicisti del libro non si pongono affatto il vincolo
Seicento pagine per un volume lavoro autoprodotto che ti ha certamente richiesto molto tempo per i contatti e la redazione. Come hai affrontato materialmente l'organizzazione e la redazione del tutto?
E pensa che quello che si vede nel libro non è neanche tutto! Non solo perché con qualcuno non c’è stato il tempo, o non era il momento giusto, e quindi alla fine ci siamo detti “pazienza, sarà per un’altra volta”. Ma avevo cominciato contattando alcuni musicisti storici per dire “vorrei ricostruire la storia, mi racconti un po’ di quel periodo?”. Come dicevo, l’idea iniziale era di scrivere una storia della chitarra in Italia. E così un giorno chiamo Massimo Gatti per farmi raccontare di quegli anni in cui in tante città italiane si suonava il bluegrass. È finita che ho passato ore al telefono con lui che mi ha raccontato tanto della sua storia personale. Ha una memoria portentosa, è veramente un archivio. Ha incontrato tanti musicisti, italiani e stranieri, e ricorda molto nitidamente episodi e circostanze. Insomma, mi ha dato assai più di quello che gli avevo chiesto e che sarebbe stato utile per il mio libro. Così pubblicai quella conversazione in due puntate sul mio blog. Le storie che mi ha raccontato mi hanno dato anche spunti nella scelta dei musicisti che volevo raccontare. Aldo Navazio, per esempio, è un chitarrista che ha scelto da tempo di stare al margine del mondo della musica, ma ha una storia bellissima che ho ascoltato prima da Massimo e poi più direttamente dall’interessato. Altre cose sono rimaste fuori, avevo progettato una sezione del libro che poi oggettivamente non ci stava più, e avevo per esempio una conversazione con Rinaldo Donati, che avevo contattato perché è un mago nel registrare chitarre — è l’artefice di “Boxe” di Claudio Sanfilippo. Insomma, fuori dal libro c’è del materiale che ha preso altre strade e altro che ho ancora con me e che non vorrei far morire nel cassetto. Quando avrò il tempo mi piacerebbe fare una cosa tipo “bonus tracks” online, magari sul mio blog. Materialmente succedeva che contattavo i musicisti con cui volevo parlare, ci davamo un appuntamento, con alcuni di persona, con alcuni su Skype, con altri al telefono e col registratore, con altri ancora ci si scriveva, ma a volte le diverse modalità si mescolavano, ci si sentiva e ci si vedeva a più riprese. Intanto Marisa, mia moglie, mi dava una mano nella trascrizione
delle registrazioni. A un certo punto mi sono accorto che il lavoro sarebbe stato ben più lungo di quello che avevo messo in conto. Alcuni musicisti mi avevano parlato di cose molto personali, altri si erano lasciati andare a commenti su colleghi eccetera. Così ho sentito il bisogno di rimandare a ognuno i testi trascritti, domandando “va bene se pubblico così com’è?” e di lì a volte partiva un nuovo scambio, e i testi raccolti si complessificavano. È stato bellissimo, due anni di cui sono veramente grato a tutti quanti. Nel frattempo leggevo tutto quello che potesse aiutarmi a costruire una cornice di pensiero, anche nel campo della filosofia della musica. Con mia figlia maggiore facevo lunghe chiacchierate sul postmoderno e prendevo appunti, mentre l’altra figlia lavorava alla copertina, partendo da un mio desiderio iniziale (che fosse ispirata al poster di un festival). Tutt’e due ingaggiate in base alle loro competenze, mi è andata bene.
Nella prefazione dici di aver abbandonato l'idea primitiva di una storia della chitarra acustica italiana. Alla fine non pensi di aver realizzato comunque, in un certo qual modo, questo obiettivo?
Alla fine sì, ma come dico in quella premessa, da un libro di storia è diventato un libro di storie. Che significa che se lo leggi per sapere come sono andate le cose, magari perdi un po’ in accuratezza, completezza e oggettività, ma guadagni dal punto di vista della profondità emotiva, è un po’ come raccontare il Risorgimento attraverso le vicende personali di, che ne so, Garibaldi, Mazzini e Manin.
Ricordo il giorno che incontrai su Skype Beppe Gambetta, fu molto generoso nel raccontarsi, parlammo a lungo e ci fermammo quando da lui, nel New Jersey, era ora di pranzo. Mi affidò storie bellissime dei suoi inizi e degli incontri coi suoi maestri. Quel giorno mi domandai “ma davvero una storia raccontata da me sarebbe più interessante di queste conversazioni così come sono? Ha senso sacrificare tutta questa bellezza per spremerne delle informazioni?”. Intanto mia moglie più sbobinava, più si appassionava, mi diceva “sono storie incredibili!”. Quel giorno capii che aveva ragione Aronne.
Nelle tue introduzioni riconosco un certo talento narrativo, un gusto per il racconto che rende la lettura anche piacevolmente briosa e accattivante. È una scelta voluta, o semplicemente istintiva e, in qualche modo, inconsapevole?
Ti ringrazio. Diciamo che ho cercato di farlo bene. Sono convinto che se vuoi parlare del lavoro di qualcun altro ci devi mettere almeno un centesimo della fatica che ha fatto lui. In generale ho cercato di dare al libro un taglio narrativo. Credo che essere corretti quando si parla di musica non significhi simulare una specie di “oggettività”, e così ho scelto un registro più lontano possibile da quello del saggio.
Nel tuo modo di porre le domande si nota una certa abilità nell'introdurre gli argomenti, i protagonisti si dilungano in risposte che spesso diventano vere e proprie digressioni, ricche di
considerazioni personali. Hai avuto l'impressione che molti avessero un reale, in qualche modo "speciale", desiderio di raccontare e raccontarsi davanti a te?
Ti giuro, tutti. Dai più noti a quelli meno famosi, che mi dicevano “ma chi, io? Ma sei sicuro?”. Questo libro mi ha regalato anche dei rapporti di amicizia e molti l’hanno preso a cuore. Poi questi trentatré oggetti da cui è composto il libro mi piace chiamarli “conversazioni”, più che interviste, ma non è un vezzo: è che, al di là di due appunti necessari per partire, volevo che fossero in gran parte improvvisate, non avevo l’intenzione di andare a parare da qualche parte ma piuttosto di farmi guidare da quello che succedeva. E ci tenevo che spaziassero, volevo che l’argomento della chitarra non fosse isolato dal contesto, dalle relazioni, dalle storie. Abbiamo parlato spesso di dettagli squisitamente teorici, ma mai in modo tecnicistico. C’è una frase che mi sono ripetuto dal primo giorno di lavoro: “non mi interessa sapere che accordature usano, mi interessa perché”. Ad esempio il capitolo di Lino Straulino forse è quello dove più si parla di accordature alternative, ma non per la gioia degli smanettoni, è la storia di un amore che porta a cercare sulla testiera la geografia di un paesaggio sonoro antico. E così molti mi hanno raccontato anche cose personali, e in altri casi sono rimasto lì al telefono a bocca aperta, ad ascoltare Andrea Tarquini nella sua dissertazione sull’arte del songwriting o Luigi Grechi che, raccontando delle sue chitarre, è partito con una lectio magistralis sulla liuteria e sui legni cinesi. Fantastico.
Tu sei uno psicoterapeuta. Ritieni che la tua formazione professionale ti dia una diversa prospettiva, in qualche modo privilegiata, nell'osservare gli artisti e interagire con essi?
Sai, ho sempre visto fra la musica e il mio mestiere un nesso fortissimo. Credo di aver scelto veramente questa professione il giorno che ho pensato che, non essendo abbastanza bravo con la chitarra, era la cosa più simile al suonare che potessi fare. Sono un terapeuta sistemico, dunque non sono di quelli che passano molto tempo in silenzio e quella che coltivo professionalmente è una specie di arte della conversazione. Vedo una seduta come un evento che assomiglia da vicino a una jam session di musica improvvisata. Non ho mai avuto interesse a fare qualche tipo di lettura psicologica della musica o della storia di questi artisti, non mi importa un granché. È un libro che ho scritto da appassionato di chitarra, non da psicologo. Anche per quello mi sono firmato “Max”, mentre sui libri che scrivo da terapeuta sono ovviamente “Massimo”. Come dire: “non sono proprio quello, anche se sono quello”. Però, ad esempio, ci sono delle conversazioni in cui mi sono divertito molto a farmi raccontare i processi creativi. Per dirne uno, Marco Pandolfi si ritiene essenzialmente un armonicista ed è stato molto sorpreso che lo interpellassi come chitarrista. Io avevo amato molto il suo No Expectation del 2021 e l’avevo trovato formidabile dal punto di vista della chitarra. Invece lui si ritiene un chitarrista piuttosto naïf e così abbiamo parlato tutto il tempo di come suona e compone con la chitarra uno che pensa di non essere un chitarrista. È stato molto bello farmi raccontare come crea un pezzo, che rapporto ha con la musica che ascolta e come questa confluisca per vie ignote nella scrittura di materiale nuovo, come l’ispirazione arrivi da un universo di ricordi sedimentati non strutturato ma ricchissimo. Anche Jackie Perkins si è raccontata come una musicista “anomala” (anche se ha studiato tanto ed è molto titolata). Mi ha raccontato il suo rapporto controverso col pentagramma e mi ha descritto le modalità visuali, cromatiche, geometriche, con cui concettualizza suoni e accordi. Ecco, circa la tua domanda direi che è stato il contrario, parlare con questi artisti mi ha dato un contributo per un pensiero su come funzionano gli esseri umani, mi ha offerto la possibilità di vedere da vicino la pluralità dei modi possibili di pensare e di costruire il mondo. È molto affascinante. E poi ho cercato comunque di metterci una visione del mondo.
C’è un capitolo che ho scritto a partire da una canzone di Tito Schipa Jr., “Sono passati i giorni”, e che ho messo all’inizio della storia perché l’ho sempre pensata come la prima canzone italiana in fingerpicking. È un capitolo che parla del rapporto fra passato, futuro e memoria, e quelle idee sul tempo mi vengono anche dalla mia pratica clinica e dai miei studi. E non ne sono sicuro ma “Gente con la chitarra” potrebbe essere il primo libro sulla chitarra che cita qua e là Gregory Bateson, che era un antropologo di origine inglese ed è, diciamo, il mio epistemologo di riferimento.
Non è mai bello fare preferenze tra i propri figli. Ma, tra tutte le interviste, c'è qualche momento particolare che più ti è rimasto nel cuore?
Non è tanto che non è bello, è proprio impossibile. Di ciascun artista ho un ricordo speciale, non è un modo di dire. Posso dirti magari che è stato particolarmente emozionante avere udienza dai “maestri”. La disponibilità di Luigi Grechi, per esempio, mi ha commosso. Con Andrea Carpi avevo fatto qualche anno prima un’intervista per il blog ed era stato generosissimo, e così si è mostrato in questa occasione. E poi Franco Morone, e Davide Mastrangelo con cui avevo avuto a che fare da allievo, e Reno Brandoni che è stato molto amichevole e ospitale. Del tempo passato con lui ricordo le gran risate… Un momento memorabile è stato quando Lucio Bardi mi ha raccontato la storia di un riff che suonava da giovane su “Mangiafuoco” di Bennato e che avevo in mente da quando lo avevo ascoltato in uno stadio, a quindici anni. Ma anche il dopo continua a riservarmi sorprese. Quello che non mi aspettavo era di poter fare delle
presentazioni del libro insieme agli artisti e invece una sera lo abbiamo presentato a L’Aquila con Miriam Foresti in apertura di un suo concerto con Luigi Sfirri, un’altra sera in una libreria di Lanciano con Stefano Barbati che mi faceva le domande e suonava dei pezzi suoi. E il 18 maggio sarò a Como per “Bellezze interiori” con la compagnia di qualcuno che saprai appena sarà confermato.
Chi è stato il più "difficile" da intervistare?
Difficile no, ma ti direi che per esempio Mauro Ferrarese è venuto fuori così com’è, “asciutto” nel modo di comunicare. Il suo capitolo è lungo un terzo degli altri, volevo mandargli altre sollecitazioni per aggiungere cose, ma poi l’ho riletto e mi sono detto “ma è bellissimo così!”. E credo che quel capitolo gli assomigli molto. Poi — questo lo sa anche lui — per chiamare Michele Dal Lago ho aspettato mesi, mi dicevo “prima di parlare con lui devo studiare!”. Michele oltre che un musicista è un sociologo e un ricercatore, ha scritto delle cose molto illuminanti sulla musica popolare americana. E quando ci siamo parlati ho scoperto una persona piacevolissima, molto divertente. Era anche molto interessato alla materia di cui mi stavo occupando, mi faceva domande lui!
Personalmente trovo che la parte più gustosa sia quella che apre una finestra sul passato: le storie intorno al Folk Studio, la Milano di Treves etc. Una finestra temporale su un'Italia, e un modo di vivere e condividere la musica, che mi sembra non esistere più. Rispetto a oggi, rimpiangi qualcosa di quei tempi che, in parte, anche tu hai vissuto?
Erano gli anni in cui facevo la radio nella mia città. Avevi la percezione di incidere sulla realtà, trasmettevi un disco e poi il giorno dopo andavi dall’amico che aveva un negozio e ti diceva quante copie ne aveva vendute. Naturalmente mi manca il modo in cui la musica entrava nelle nostre vite. Credo che mediamente ci fosse una chitarra in ogni casa, oggi per una serie di ragioni non è più così. Le riviste erano molto belle, io sono grato quando incontro realtà come Blogfoolk, che portano avanti un certo modo di parlare di musica che in fondo è quello col quale siamo cresciuti. Però non mi piace quando i miei coetanei disprezzano la musica dei più giovani. Trovo imperdonabile usare gli stessi argomenti che i loro genitori usavano quando loro ascoltavano i dischi negli anni ‘70. Penso che di certa musica degli ultimi anni non abbiamo capito molto, forse noi della nostra generazione non abbiamo le chiavi di lettura. È molto
istruttivo, da questo punto di vista, parlare con Michele Dal Lago, che dei fenomeni musicali anche recenti è uno studioso, ne coglie spesso valori che non sono così evidenti e trova fili conduttori fra mondi diversi. Accetto serenamente che il mio bisogno di musica deve rivolgersi altrove, molta della musica di ora non mi riguarda, ma quando è necessario la difendo dagli argomenti triti che vengono dai boomer come me. Per risponderti, sì, mi manca molto quel mondo. Non ho tempo di rimpiangerlo perché c’è ancora miliardi di cose da scoprire, qui ed ora, di quella storia, ma certo è una scoperta un po’ più solitaria, privata. Poi, come molti degli artisti con cui ho parlato, ho molta nostalgia di quando tiravamo giù le parti di chitarra con tanta fatica dai dischi e dalle cassette, ma vedo anche dei vantaggi nella possibilità di accedere a tanta musica e di avere la tecnologia che ti permette di imparare.
Ripensando a tutte le interviste c'è un tratto, un elemento, che ti sembra accomunare la personalità degli artisti che hanno scelto di suonare un certo tipo di musica? Artisti che hanno fatto proprio della chitarra la propria compagna di vita?
Oh certo, anzi a volte penso che quello sia il vero argomento del libro. Tutti i musicisti che ho incontrato hanno dichiarato un debito. Hanno raccontato una gratitudine verso maestri, o verso qualcuno che è stato importante nella scelta di fare l’artista. O verso una terra, magari.
Forse il tema del libro è proprio l’uso che facciamo delle eredità, del passato, delle relazioni, di quello che abbiamo ricevuto.
Max Giuliani (a cura di), Gente con la chitarra. Il Folk, il Blues, i Cantautori, StreetLib 2023, pp. 606, 2023, euro 34,00
“Gente con la chitarra" è un volume autoprodotto che raccoglie trentatré interviste ad artisti anche molto diversi per ispirazione e carriera, ma che hanno nella chitarra, nelle sue tante declinazioni, il proprio denominatore comune. Ne nasce un'opera che è una ghiotta occasione per fare il punto sullo stato dell'arte della chitarra acustica in Italia, ma anche per conoscere alcune realtà musicali contemporanee, insieme a personaggi che hanno fatto la storia della divulgazione della musica per chitarra acustica in Italia e che sono ben conosciuti agli appassionati. Ma il risultato va ben al di là di un semplice catalogo di confessioni d'amore verso lo strumento, che invece diventa il filo rosso che collega musicisti ed esperienze anche notevolmente diverse. Il volume è organizzato per nuclei tematici. Ogni sezione è introdotta da un breve saggio che ne inquadra il contesto di riferimento, a questo segue l'intervista vera e propria. Domande circostanziate, che intervallano come brevi incisi delle lunghe risposte che si trasformano in un amarcord o in vere e proprie confessioni da parte degli artisti che rimangono sempre i veri protagonisti. In più occasioni si trasforma in un vero e proprio viaggio nel tempo e, soprattutto nei capitoli iniziali, attraversa una stagione pionieristica, quasi eroica, della musica in Italia. Molto belli i ricordi del Folk Studio che, tramite le memorie di alcuni dei suoi protagonisti, rievoca un intero mondo che orbitava attorno a n mondo che è stato anche una gloriosa stagione della divulgazione musicale italiana. Ed è questa, a mio avviso, la parte più gustosa dell'opera. Scorrendo le numerose pagine (quasi 600!) entriamo poi in un sottobosco culturale di artisti indipendenti, che spesso non hanno raggiunto una ribalta notevole, a cui Massimo Giuliani rende giustizia con un'opera certamente meritoria, oltre che un notevole spirito di abnegazione e di ricerca di questi stessi personaggi, a volte da tempo lontani dalle scene. È il caso di Janeth Smith che scopriamo essere stata la prima "maestra" di fingerpicking nel cerchio del Folk Studio o, nel giro bolognese, Debora Kooperman. Personalità affascinanti, sconosciute ai più, la cui memoria viveva finora solo tra i diretti protagonisti di quella stagione. Testimonianze di arte e vita di un'epoca nella quale, talvolta, il confine tra arte e vita rimaneva labile o poteva confondersi del tutto. Tanti artisti quindi che, spesso senza avere raggiunto la massima ribalta, hanno tenuto in vita una estetica musicale a cui Giuliani adesso, da servo di un tempo pur sempre galantuomo, rende infine giustizia. Un volume indispensabile quindi per tutti quanti amano la chitarra acustica, ma assolutamente consigliato a chi, amante della musica in generale, troverà uno spaccato di un mondo musicale variegato, nel tempo e nello spazio, che tra le righe mostra anche i riflessi di tanti momenti del cambiamento della società italiana degli anni passati e, in parte, colpevolmente dimenticati. Ma un'opera da cui traspare soprattutto, e in maniera evidente, un amore profondo e sincero per la musica e per ciò di cui si parla, e che spesso, per motivi anagrafici, l'autore ha anche vissuto in prima persona, cosa che gli permette un dialogo diretto, e alla pari, con gli artisti, il definitivo valore aggiunto di un lavoro che appare non tanto come un’opera di ricostruzione o dotta ricerca, bensì il résumé di una esperienza realmente vissuta.
Pier Luigi Auddino
Foto di Mario Giovannini (3), Polacchini (5), Giovanni Cavallo (6), Elia Falaschi (7), Daniele Barraco (8)