L’arte immortale di Turlogh O'Carolan

Il 25 marzo ricorre l’anniversario della scomparsa di Turlough O’Carolan (Toirdhealbhach Ó Cearbhalláin, 1670-1738) e, anche se non sappiamo in che modo armonizzava le sue celebri composizioni, molti musicisti ancor oggi sono in debito con quello che fu l’ultimo bardo d’Irlanda. Per quanto possa sembrare strano, riteneva prioritaria la poesia sulla musica. Le sue composizioni le chiamava “planxty” ed è proprio in omaggio a ciò, all’inizio degli anni ‘70, che il famoso quartetto folk composto da Christy Moore, Donal Lunny, Andy Irvine e Liam O’Flynn, assunse quel nome per compiere le sue meraviglie. La musica di O’Carolan differisce considerevolmente da quella irlandese tradizionale, si serviva di raggruppamenti melodici di note che erano solo occasionalmente accostabili a quello stile. Nessuno può dire con esattezza che tipo di accompagnamento utilizzasse per recitare e cantare ma è sicuro che i mecenati dell’epoca se lo contendevano e non certo solamente perché era convinzione che accogliere male i sacri arpisti portasse sventura. All’inizio del XVIII secolo lo invitavano i due mondi opposti: quello millenario gaelico oramai frantumato e quello nuovo degli Angli che formerà l’Irlanda moderna. Turlough era nato contadino ed era anche capace di usare le mani da fabbro ma, diciottenne, il vaiolo lo rese cieco e per tre anni non fece altro che studiare arpa. Oggi senza il suo melodico genio e il gran numero di potenti e ricchi che lo sostennero, quell’antica tradizione musicale sarebbe irrimediabilmente perduta. Risulta talmente arcaica da non poter essere neppure datata. E non casualmente il primo brano che Turlough compose, “Sídh Beag augus Sídh Mór”, prendeva il nome da due “tumuli fatati” di leggendaria memoria, quasi a richiamare in vita i mitici Tuatha De Danaan del pagano Gael. In tempi remoti furono proprio loro a portare nell’isola i Quattro Tesori d’Irlanda: il “Calderone del Dagda” che non era mai vuoto saziando la fame di chiunque, la “Spada di Luce” ricca di poteri magici, la “Lancia di Lúg” che non falliva mai il bersaglio e la “Pietra del Destino” sulla quale sedevano i Re. Alle genti che lo ascoltavano ammaliate, O’Carolan narrava che quest’ultima si trovasse sulla Collina di Tara (Contea di Meath) e che emettendo un particolare suono, sapesse individuare all’istante quello che sarebbe poi diventato un grande Re, come fece con Brian Borù. Nessun irlandese, seppur convertito al cattolicesimo, ha mai dimenticato le origini
della sapienza druidica. Il suono dell’arpa di Turlough O’Carolan sembrava imprigionare magicamente il tempo nello stupore ammirato esattamente come il mondo gaelico assorbiva in fretta gli invasori Normanni sia in linguaggio che costumi. L’alchemica fusione tra musiche popolare e classica lo collegava all’istante agli eccezionali compositori italiani suoi contemporanei, Antonio Vivaldi, Tommaso Albinoni, Arcangelo Corelli e soprattutto Francesco Xaverio Geminiani, violinista figlio di violinista.  Quest’ultimo ne era talmente incuriosito da decidere di sottoporlo a una prova di competenza musicale: gli fece recapitare un movimento di una sua nuova e inedita composizione, alterando però alcuni passaggi e poi chiedendo il suo parere. L’arpista ascoltò con attenzione, complimentandosi con l’autore ma facendo anche gentilmente notare alcuni di quelli che definì “tentennamenti” e indicando con precisione proprio i punti incriminati corrispondenti a quelli modificati ad arte dall’autore. Questo episodio accrebbe ancor più il mito dell’arpista irlandese: “Ecco un vero genio musicale!” urlò Geminiani, ammirato. Che vi siano alcune influenze della Musica Italiana in quella di O’Carolan è solo una supposizione ma è pur vero che il suo stile compositivo non è puramente “irlandese”, nella prima metà del XIII secolo i compositori precedentemente citati godevano tutti di considerevole fama e rispetto nella città di Dublino. Questa influenza potrebbe risiedere nei ritmi e nelle forme delle melodie poiché la differenza fondamentale è che loro potevano scrivere lunghi brani in cui utilizzare sia cambi di tonalità che dispositivi contrappuntistici, lui, al contrario, doveva preoccuparsi di comporre senza cambi di tonalità, a causa della natura essenzialmente diatonica del proprio strumento. Lo spirito inquieto di Turlough cantava all’arpa le sue lodi al Signore, così come un tempo lontano aveva fatto Re Davide con la cetra. Forse la cecità l’avrà costretto parimenti ad affrontare il suo ego ridotto in frantumi oltre arte, letteratura e ragione, ma riascoltando le sue sublimi composizioni non c’è dubbio che la musica fosse il suo accesso privilegiato alla dimensione spirituale. Una volta in Irlanda sentii affermare che i protestanti (“prods” come li chiamavano con un certo disprezzo) possedevano le migliori canzoni ma gli strumenti migliori con cui proiettare le storie, erano dei cattolici. O’Carolan quella soglia la attraversava grazie alle trentasei corde in metallo che pizzicava con le sue unghie. Riprendeva nel farlo, anche le parole dell’allora Vescovo e futuro Santo Patrizio, che alle genti augurava sole, vento, pioggia e protezione nell’attesa del nuovo incontro. L’arpa allora, differentemente da quelle più recenti, aveva una cassa armonica scavata da un unico pezzo di legno, veniva normalmente posizionata contro la spalla sinistra del musicista che con la mano destra
suonava i bassi e con l’altra gli acuti. La sua timbrica così lontana da quella degli utilizzatissimi clavicembali, possedeva in più un’inquietante qualità a campana. In quel periodo storico la ricca isola irlandese era frammentata e facile preda delle mire dei sovrani inglesi che, col passare del tempo, cercarono in tutti i modi di imporre alla gente la religione protestante attraverso espropri di terre donate a coloni stranieri. Venivano continuamente emanati divieti intollerabili: i preti cattolici erano obbligati a pagare soldi come garanzia del loro “buon comportamento”, si istituiva legalmente una urfida (e spesso losca) figura, che scovava di nascosto i prelati disubbidienti per denunciarli restando nell’ombra. Nuove leggi spogliavano quel popolo del diritto di contrarre matrimoni misti, di esercitare professioni legali o giudiziarie, di far valere eredità o acquisti, di studiare all’estero o nei migliori college, di accogliere bimbi orfani in casa, di possedere armi. 
O’Carolan attraversò nella sua vita errabonda di bardo profetico, anche miseria, sofferenza e disperazione di quei villaggi, sempre componendo musica, intorno alla sua eroica figura si alimentarono leggende e anche affari, il suo mito sopravvive intatto e la sua arpa è conservata al Museo Nazionale d’Irlanda. Al confronto di arpisti giunti prima di lui, è indubbio che fosse un musicista differente, almeno rispetto a quelli citati alla fine del XII secolo dallo scrittore e storico gallese Giraldo Calambrese (Giraldus Cambrensis). Il quale concludeva che l'arpa aveva grande ruolo all’interno della vita irlandese figurando in stemmi o monete senza dimenticare quel famoso proverbio che afferma: "All’uomo tre cose sono indispensabili: una donna, un giaciglio e un'arpa". 

Flavio Poltronieri

La musica di Turlogh O’Carolan: una discografia essenziale

Patrick Ball – O'Carolan's Farewell to Music (Fortuna Records, 1992)
Derek Bell - Carolan's Receipt (Claddagh, 1986)
Derek Bell - Carolan's Favourite (Claddagh, 1988)
The Chieftains - The Chieftains 9: Boil the Breakfast Early (Claddagh, 1979)
Simon Mayor – Carolan. Fantasies On Themes By Turlough O’Carolan (Acoustics, 2023)
Máire Ní Chathasaigh – The Harp of Turlough O'Carolan (Old Bridge Music, 1987) 
Maire Ni Chathasaigh and Chris Newman – The Carolan Album (Old Bridge Music, 1991)
The Harp Consort - Andrew Lawrence-King - Carolan's Harp (BMG/Deutchse Harmonia, 1996)

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