Ho “rincontrato” Maurizio Disoteo dopo oltre vent’anni, dopo tanti suoi libri e dopo molti miei ascolti. Quando raccoglievo libri per la mia tesi di dottorato sulle politiche della world music il suo “Antropologia della musica per educatori” rappresentò, per me, un caposaldo. Da un alto perché ricomprendeva – nel ritmo di un trattato agile – molta letteratura sull’argomento (amplissimo e “anglofonissimo”) delle musiche etniche internazionali, analizzate e riportate attraverso paragrafi veloci che, giocoforza, rimandavano alla grande letteratura sul tema. Dall’altro perché le informazioni erano organizzate in modo estremamente comprensibile. E questo, per il me di quel periodo (con un approccio a dir poco onnivoro, per necessità e ambizione), rappresentava un elemento fondamentale. Partendo da lì sono passato – approfondendo un mio percorso che gradualmente si è delineato, sia nel metodo che nella direzione – al Madagascar e all’Indonesia, alla Nuova Guinea e all’India, alle Ande, all’Europa e all’Italia. E ho apprezzato (tanto quanto desiderato di assorbire) quella chiara linearità con cui si trattavano i temi dell’intercultura nell’attività musicale, dell’identità musicale, dell’esotismo e delle ibridazioni – e via discorrendo. Da qui, ovviamente, Disoteo rivendicava la necessità di andare avanti e approfondire, di avvicinare gli studiosi che hanno sezionato gli elementi di cui si nutre la musica, tenendo ben presente quanto siano, molto spesso, culturali e politici. Di elaborare le informazioni e sviluppare riflessioni attraverso la letteratura, gli studi sul campo, la politica dell’informazione e delle relazioni sociali: gli studiosi italiani (certamente), ma soprattutto i maestri e quelli che gettano l’intuizione, come Kilani, Blaking, Shaffer, Brailoiu, Pacini Hernandez, Nettl, Amselle, Clifford, Sachs, eccetera.
Lo stesso impianto e lo stesso chiaro ordine si scorgono in questa “Introduzione all’etnomusicologia”, il volume denso e medio-breve (poco meno di duecento pagine) uscito qualche mese fa per Kurumuny. Certo, una storia della musica etnico-popolare non è cosa da tutti. E, a dirla tutta, sembra allo stesso tempo scontata e rivoluzionaria. Però, a dispetto di tutto, manca quasi sempre (sicuramente con questo ordine) sugli scaffali. Addirittura – riconoscendo, mentre scrivo, una fastidiosa e irriducibile limitatezza di prospettiva – sembra quasi inutile: abituati, come siamo, a cercare e comporre e, come dice lo stesso autore, a ricucire le trame di storie e analisi di più studiosi, prospettive e libri, comprimendoli in un compendio personale, composto e ricomposto nel tempo come una playlist scritta (cartacea ma non solo) del curioso etnomusicale. E invece il volume in quesitone si rivela in tutta la sua utilità, specie quando ne scorriamo le pagine introduttive, placide e ordinate, e ne scorgiamo la struttura complessiva. In seno a quest’ultima si scompongono, con un metodo di analisi sistemico e rassicurante, gli elementi fondamentali dell’etnomusicologia: storica, contemporanea, internazionale e italiana. E ci pone nelle migliori condizioni per ripercorrere i molteplici approcci e le esperienze di ascolto e di studio che hanno determinato le più importanti correnti di pensiero dell’ultimo secolo. Allo stesso tempo, il volume abbraccia – e questo costituisce un fattore determinante della sua importanza nell’ambito della conoscenza musicale – la complessità della disciplina. Che, come a molti è noto (a molti dei lettori di queste pagine), si misura – nei migliori dei casi e, direi, quasi sempre – con le articolazioni del flusso del pensiero otto-novecentesco e contemporaneo, riconducendo il lettore alla poetica popolare come alla filosofia, alla politica, alle musicalità trasversali: pensiamo ai concetti gramsciani di alterità e contrapposizione – estetica, storica, politica – tra poesia e letteratura “alte” e subalterne, oppure a quelli che, con Carpitella (in contrapposizione teorica a Mila), sono ricondotti all’autonomia del pensiero folclorico.
Insomma un nuovo fondamentale per gli appassionati, gli esperti e i curiosi. Che, come dice l’autore, sviluppa “la critica alle concezioni della musica ancora purtroppo dominanti nella nostra società e nelle istituzioni formative, basate sul preconcetto della superiorità della tradizione ‘colta’ occidentale e dei modelli di fruizione e dei percorsi formativi che vi si ispirano. Si potrebbe credere che si tratti di una posizione superata ai nostri giorni, ma è il contrario per chi come me ha frequentato per anni laureati di conservatorio e diplomati di scuole musicali il cui orizzonte formativo non si era mai aperto verso altre culture o, persino, non aveva mai considerato nemmeno il valore della nostra ricca tradizione folklorica”.
Daniele Cestellini
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