Questo album è bello e intrigante. Perché, come si insiste nelle note di presentazione, non appartiene a nessun genere. Sì, questo è retorico quanto il suo contrario, quanto cioè l’etichettatura. Ma tant’è e non stupisca che, anche qui, ci si abbandoni alle frasi fatte. Perché non lo si fa per pigrizia, ma per semplificare e condividere il processo che porta a questo incontro: la ricerca, l’ascolto, l’elaborazione, la scrittura per rappresentare. A dirla tutta Naomi Berril e, con lei, “Inish”, il suo bellissimo quarto album, porterebbe con sé molti appigli di scrittura (se non facile) comoda. L’appiglio dell’indipendenza, quello della trasversalità e quello del fascino: cioè dell’attrazione naturale che un buon grado di sperimentazione esercita su chi ascolta e prova ad analizzare. Poi ci sarebbe l’appiglio della sua aderenza a una dimensione più che articolata, entro la quale sia la scrittura che il suono e l’interpretazione non riconducono a nulla di scontato. Tutto ciò premesso, la Berrill - irlandese e “currently based in Florence” - attraversa uno spazio onirico e, allo stesso tempo, tangibile. Uno spazio piacevolmente comprensibile, interpretabile, in cui l’unica bussola diviene il trasporto, il flusso di una musicalità, di un’ispirazione indissolubilmente legata a due elementi preponderanti: l’esecuzione e la visione (questa astratta e però comprensibile, quella sicura e però immaginifica). Questa dimensione così densa, entro cui i pochi strumenti evocano un turbine di possibilità, accresce (oltre ogni limite) il fascino di un flusso di suoni che interpreta un racconto estremamente personale (originale?). Che, a sua volta, ingigantisce e rende condivisibile un grande racconto: stabilmente poggiato sui sensi, sulle sensazioni, e tenacemente protratto a un ignoto irresistibile. Ad esempio, Naomi Berril è una violoncellista (con studi classici in Scozia, Svizzera e Italia) e la sua scrittura, così come il suo canto, sono evidentemente legati al suo strumento. Lo si nota in molti musicisti - o in gran parte di quelli bravi - ma qui, questa aderenza piena, permane in tutti i gradi di elaborazione. Anche quando, attraverso un uso sapiente di arrangiamenti dinamici e regolati, il violoncello sembra quasi scomparire (quasi trasformarsi, trasfigurarsi), mescolandosi a un flusso narrativo che poggia sulla parola, su una melodia ricca, calda, che ha bisogno di spazio, di aria, di mare e distanza (“Best alone”). Perché, ci dice indirettamente Naomi, ciò che qui conta è il racconto: esso stesso inafferrabile, scivoloso, fosco, epico. Un racconto grande, enorme, in cui compaiono spazi e tempi veri che si mescolano a quelli immaginati: migliorati nella trasposizione musicale di una storia sempre tesa e irrisolta. La piratessa irlandese Grace O’ Malley, ritratta in “Sea Warrior” (il singolo che ha anticipato l’album), si incastra con il filo rosso di “Inish”, Inishark e Inishbofin, due isole situate davanti alla costa ovest dell’Irlanda. E insieme diventano un ciclo di storie musicali, che evocano l’impossibile, l’indissolubile legame tra vita e mito, tra pescatori e divinità, tra sentimento e necessità. In questo senso non stupisce che, il bisogno (narrativo) di una dimensione ampia, di uno spazio orizzontale, prospettico, trovi una confluenza felice in un assetto da trio di polistrumentisti (con Lorenzo Pellegrini e Andrea Beninati). Perché da un lato la compostezza strutturale del trio definisce una sorta di argine (sempre frangibile) e, dall’altro, lascia aperte mille possibili soluzioni (che comprendono anche quelle che non si possono, nella contingenza, adottare). Questa tensione strutturale inclina tutti noi verso quell’abisso che la Berrill ci indica con volute di archetto volutamente ambigue, con pizzichi e arpeggi argutamente stridenti, con lunghe arcate fluide e avvolgenti (vedi “Galatea” e “Caoineadh”). Il pezzo più rappresentativo di quanto raccontato nell’album, per compostezza e complessità esecutiva, rimane “Blue”: risolutivo, profondo, avvolto in una trama vocale elaborata e perfetta.
Daniele Cestellini
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