I 50 anni di León Gieco

Nel 1973 la neonata etichetta rock argentina Music Hall pubblica il primo album, omonimo, del cantante, chitarrista e compositore León Gieco, registrato insieme a Gustavo Santaolalla nei due anni precedenti. 
Gieco era arrivato a Buenos Aires da Santa Fe nell’estate del 1969 con l’obiettivo di incidere un disco. Sapeva che la casa discografica dei Beatles era la Odeon, la cercò sull'elenco telefonico e solo quando fu all’angolo tra Pedernera e Rivadavia si accorse che l'insegna luminosa "Odeon" era quella di una pizzeria. Per caso, sentì un annuncio radiofonico in cui si offrivano lezioni di chitarra negli studi di José A. Rodrígues Netto. Il maestro era Gustavo Santaolalla, chitarrista degli Arco Iris, il gruppo rock che sapeva attingere anche dal folklore argentino e aveva appena pubblicato il primo 45 giri, "Lo veo en tus ojos” / “Canción para una mujer".


Oltre alle lezioni, Santaolalla ascoltò le canzoni che León Gieco aveva composto e gli propose di registrare un album. A loro si unirono nelle registrazioni anche gli altri musicisti di Arco Iris, Ara Tokatlian ai fiati e all’organo, Guillermo Bordarampé al basso, Horacio Gianello alla batteria e ai bombos legüeros. Inoltre, alle voci, coinvolsero Miguel e Eugenio e i Psiglo, Luis Cesio e Rubén Melogno.
I brani più conosciuti sono “En el país de la libertad”, che apre l’album, e “Hombres de hierro”, che affronta i sentimenti provati dopo El Cordobazo di fine maggio 1969, la rivolta di studenti e lavoratori, duramente repressa dalla dittatura militare, ma che riuscì a mettere in crisi il governo e a contribuire alla caduta dittatore Juan Carlos Onganía l’8 giugno 1970, aprendo la strada alle elezioni del 1973. Fin dal suo primo album, Raúl Alberto Antonio “León” Gieco sa far incontrare il folk con il rock argentino. I suoi versi mostrano sensibilità per le lotte sociali e politiche, per il sostegno a chi è emarginato, in difficoltà, per le rivendicazioni dei diritti umani, dei contadini, dei popoli nativi. 


Un anno dopo cambia gruppo e pubblica il suo secondo album, “La banda de los caballos cansados”, più disomogeneo, ma sostanzialmente con lo stesso stile, versi che cercano di "capire il destino della gente, la ragione delle ingiustizie": queste prime canzoni, le sonorità della chitarra acustica e dell’armonica a bocca lo identificano come "il Bob Dylan dell'Argentina".


I due album gli permettono di entrare a far parte della scena rock di Buenos Aires, di partecipare a diversi festival e di far parte del famoso gruppo PorSuiGieco, insieme a Raúl Porchetto, Charly García e Nito Mestre (membri dei Sui Generis), e María Rosa Yorio. Qui li ascoltiamo presentare un’anteprima dal terzo album di León Gieco, “El fantasma de Canterville” che uscirà nel 1977, sempre per l’etichetta Music Hall.


Sarà proprio Charly Garcia a convincerlo a pubblicare la sua canzone più famosa (che Gieco riteneva troppo monotona), “Solo le pido a Dios” nel “IV LP” (1978): l’aveva scritta nel villaggio della sua infanzia, Cañada Rosquín, nel nord della Provincia di Santa Fe, nella casa dei suoi genitori. La compose mentre era con il padre, che gli disse subito che avrebbe avuto fama mondiale. 


Nacquero prima le melodie dell'armonica accompagnata dalla chitarra. Poi iniziò a scrivere versi intimi e, quindi, a inserire frasi ispirate dai conflitti sociali dell'epoca, dalla dittatura militare, l'esilio di Mercedes Sosa (che l’avrebbe portata al successo), la possibile guerra tra Cile e Argentina. A novembre 2023 l’ha riproposta come canto di pace.


Alessio Surian

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