Valerio Bruner – Vicarìa (Santa Marea Sonora Records, 2023)

Dopo tre album in inglese, l’ultimo dei quali – “La belle dame Vol.2” – uscito nel 2020, Valerio Bruner, poliedrico artista napoletano, si è ritrovato nella situazione di chi, ad un certo punto, sente il bisogno di “riportare tutto a casa”. “Vicaria”, questo suo notevole primo disco in dialetto campano, è arrivato esattamente così, e finisce per abitare nei vicoli della Napoli nascosta, a tratti dionisiaca e dannata, come se fossimo in un copione di Mimmo Borrelli. Dieci tracce, prodotte dall’ottimo Alessandro Liccardo, che dipingono un affresco viscerale ed appassionato, al cui centro ci sono le storie invisibili degli sconfitti, degli emarginati e di tutte le loro contraddizioni, fra sacro, profano e disperata poesia popolare. Album aperto dalle oscurità blueseggianti di “Priavamo a Dio” (“Ncopp a ‘nu lietto ‘e cemento e cartone s’ammescano ‘a notte, ‘e juorne, ‘e penzieri. M’addormo ‘mbriaco‘e vino e dulore...me cerco ind’e suonne ‘e quanno ero uaglione”, trapassata dagli squarci elettrici della chitarra e sostenuta da una linea di basso ferrosa ed incessante. “Core mio” si macchia, anche in questo caso, di colori blues, che poggiano sui timbri acustici della chitarra, scortati da un pattern ritmico secco attraversato dai fraseggi della chitarra elettrica. A seguire arriva una “Carn’e maciello” che si screzia di funky, sostenuta da una sezione ritmica al fulmicotone, e con lo strumming della chitarra – illanguidita dal wah – a sostenere la voce di Bruner, a metà fra spoken e rap a là 99 Posse. “Tutto e niente”, splendidamente cantata insieme a Brunella Selo, si scalda di timbri meno elettrici e trame più mediterranee, trascinata com’è da un basso vorticoso, su cui la chitarra pizzica un solo dal sapore flamenco. Giro di boa è “Ya no me voy”, con la partecipazione (vocale ed autoriale) della bravissima Marilena Vitale (che finisce per creare uno splendido gioco di contrasti con la voce graffiata di Valerio), che si presenta come una torbida ballata, accompagnata da uno strumming acustico che annega sotto i colpi di un basso plumbeo e le aperture di synth fumè. “Ave Maria” sgrana le sue atmosfere noir lungo un cupo arpeggiare in minore, che finisce per aprirsi, in strumming e progressione armonica, nel ritornello. Si arriva ad una interessante tripletta di cover/ adattamenti, tutti registrati in presa diretta: da una “Maronna nera” (nient’altro che “The House of the Rising Sun” degli Animals) tratteggiata da un notevole pathos interpretativo e molto fedele nell’arrangiamento, ad una “Arraggia ‘e chi nun vence maje” (quel gioiello che è “Hey hey, my my” dell’immenso Neil Young) dal tiro drittissimo ed irrigata da una pioggia torrenziale di chitarre distorte, passando per una “Napule chiamma” che è versione partenopea di “London Calling” dei Clash e che, in verità, complice una distorsione “timidina” e un po’ soffocata, finisce per perdere un po’ di quel mordente visionario che era in Strummer e soci. A chiudere il disco ci pensa la splendida “Sempe ‘ccà (per Mario Paciolla)” (“Vulesse ‘na voce pe’ alluccà ancora, astregneme ‘e mmane, fammello sentì, pe’ quant’è ‘o dulore st’ammore nun more, ind’a ‘stu cielo tu circame ie sto’ sempe ‘ccà”), dedicata al giornalista e cooperante Onu ucciso in Colombia nel 2020, in circostanze tutt’ora ben poco chiare, e a cui lo stesso Bruner ha dedicato anche un documentario (“Come fuoco”), una piccola gemma sostenuta da un nebbioso strumming acustico, dilaniato, nel ritornello, dai fraseggi della chitarra elettrica. In conclusione, questo esordio in dialetto di Valerio Bruner coincide con un disco meravigliosamente sanguinante di vita. È una piccola mappa geografica, un intrecciarsi continuo di luoghi e storie, con una scrittura ruvida, di terra e radici, eppure lirica ed ispirata. In una parola, fulminante. valeriobruner.bandcamp.com 


Giuseppe Provenzano

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