Pausis – Pausis (Seikilo Ancient World Music, 2023)

L’ensemble Pausis è formato da Theodore Koumartzis alla lira; Eljona-Eleni Sinjari (voce), Evagoras Bekiaris (pianoforte e strumenti elettronici), Sokrates Votskos (duduk e sax) e Marios Podaras (pandura e violino). Nell'ambito della cosiddetta world music c’è sempre più attenzione alle contaminazioni tra generi di diverse culture, spesso lontane geograficamente e storicamente ma che ormai convivono negli spazi urbani delle nostre città dove spesso il lontano è vicino. In questo caso però il lontano “storico” di riferimento, è lontano per davvero. Infatti, protagonista del disco in esame è la mitica lira a sette corde dell’antica Grecia, cordofono ottenuto da un carapace di tartaruga. Secondo i miti Mercurio la regalò ad Apollo, al suo suono vennero alzate le mura della città di Tebe, il satiro Marsia pagò con la sua stessa vita per aver osato, con il suo aerofono aulòs, sfidare la lira del dio Apollo e, ancora, con la quale Orfeo riuscì a commuovere gli Dei fino far ritornare in vita la sua Euridice. Questo ci raccontano i miti del magico strumento ed è quanto ci restituisce il prezioso lavoro discografico che la vede protagonista e ci riporta appunto in un clima mitico. I brani strumentali sono arricchiti dal sound di diversi strumenti acustici che convivono con effetti elettronici e, come se non bastasse, si aggiunge la bellissima voce femminile come figura che impreziosisce la texture e il groove, già ammalianti, nell’ eterna lotta di ‘confine’ tra Crono e Orfeo. L’ascolto di questo disco mi rimanda a tratti ad un certo progressive degli anni Settanta, quando i codici linguistici, musicali e non, si intrecciavano aldilà dei loro significati singoli dando origine ad un metalinguaggio dal sapore onirico e misterioso. Uno di questi momenti è rappresentato dalle incalzate del pianoforte e gli interventi del violino nel primo brano, “Belenus”. Un altro esempio è “Metamorphosis” dove c’è un senso narrativo che riporta alla prosodia dei tragici greci (quando anche loro “rappavano”), in cui dopo una introduzione libera si snoda un basso di passacaglia frigia e di un ostinato della lira, sui quali si incastona la voce parlata intermezzata da una parte libera del violino. L’ interazione tra linguaggi è quindi una delle prerogative del lavoro; d’altra parte gli antichi greci non distinguevano tra, poesia, recitazione, musica e gestualità. Alcuni brani, mi danno un senso di “audiovisione”, con un’immagine da vivere però in absentia, come nella rarefatta “Almanecer”. Un'altra cifra del disco è la sapiente combinazione del sound acustico della lira, del contrabbasso, unito al violino e al pianoforte, che dallo strumento apollineo derivano, con sonorità elettroniche moderne. Un esempio eclatante è nel brano griko “Are Mou Rindineddha”, che unisce la melodia tradizionale lasciata nell’originale con un arrangiamento tra l’elettronico e l’acustico. In questo canto salentino, la rondine è metafora del viaggio, delle migrazioni e dell’accoglienza dall’oriente verso il resto del mondo, la protagonista di questo canto, conosciuto in molte versioni, ci porta in casa nostra, se non altro per il testo (“Chissà, piccola rondine/Da dove hai volato/Quali mari hai attraversato/Per arrivare con il bel tempo….. /Ma non mi dici una parola/Per quanto ti chieda/Mentre ti alzi e scendi in picchiata/Per sfiorare le onde”). L’immagine della rondine, muta e messaggera, è anche la protagonista di un noto canto calabrese (‘Tu Rinnina’) raccolto a Cirò (Kr) da Antonello Ricci e portato al successo da Eugenio Bennato. In realtà, ho trovato una variante molto più simile a quella del disco in un canto Arbëreshë in Calabria e anche in un canto marchigiano dal titolo ‘La rondanina’. In fondo, affacciano tutte nella stessa parte del Mediterraneo, la cui spaziosità è sottolineata alla fine del brano dal raddoppio all’ottava della voce femminile. Il quarto brano, “Boundiers”, è un esempio della dialogicità tra la lira e uno strumento armeno a fiato a doppia ancia come il duduk, parente del dionisiaco aulòs. Dal punto di vista strettamente musicale si recupera molto di quel poco che si conosce della musica dell’antica Grecia e degli altri popoli del Mediterraneo. Si recuperano gli schemi melodici che, in funzione lirica o di semplice ciclo ripetitivo, restano quasi sempre nell’ambito del tetracordo, perno fondamentale della musica greca. Un esempio è “Journej” dove su un tetracordo discendente della lira si inserisce la splendida voce femminile. Dal punto di vista ritmico tutti i brani sono basati su schemi di tipo additivo più o meno lunghi, oppure su cicli regolari e brevi che nell’interazione tra gli strumenti danno origine a delle “emiole”, ovvero al “due contro tre”. Questi aspetti, uniti alla sonorità della lira che richiama molto quello della kora, fanno viaggiare l’ascoltatore verso l’Africa subsahariana. Ciò si può riscontrare in “Avake”, brano basato su un arpeggio ritmico di settima maggiore, dove si evoca appunto il suono della kora e le poliritmie africane. Anche l’aspetto metrico sembra riportarci in un ambiente arcaico riproponendo gli antichi ‘piedi’ della metrica greca, così per esempio nel primo brano “Belenus”, in uno schema di 12/8 sono incastonate delle cellule di trocaiche (lunga breve) ricordando quasi una tarantella popolare terzinata o il ritmo anapesto in “Campanas” (-- _--_). Da lontano si sentono dei cori indistinti, deve essere stato qualcosa di simile, il canto delle sirene che ammaliò Ulisse udendole mentre gli raccontavano la sua stessa storia. Gli armonici dell’inizio danno l’effetto campana. Ascoltare “Pausis” è veramente una pausa di relax, un viaggio nel mondo ma soprattutto in sé stessi, dando spazio agli angoli più reconditi e altrimenti inesprimibili del proprio essere moderni. 


Francesco Stumpo

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