Il Padova Jazz festival è giunto quest'anno alla XXV edizione, con due settimane a metà novembre dense di appuntamenti in diversi orari e luoghi della città. La prima settimana ha portato a compimento un impegno preso nel 2020: il duo Erwin Vann (sassofono tenore, tampura, campane) e Peter Hertmans (chitarra elettrica) avrebbero dovuto partecipare all’edizione cancellata per le restrizioni legate al Covid-19, né furono in grado di venire a Padova in quelle successive. Quest’anno hanno avuto a disposizione la Sala Rossini del Caffè Pedrocchi per un concerto alle 11.30 di domenica che li ha visti proporre i loro arrangiamenti dei brani più rilassati di John Coltrane, già raccolti nel 2021 nell’album “Compassion”.
I due si conoscono da decenni e l’intesa non manca, mettendo in evidenza il suono magistrale ed espressivo di Erwin Vann al sassofono tenore.
Ancora più convincente, a compimento dei primi otto giorni del festival, nello stesso conteso mattutino, è stato il duo – altrettanto consolidato – che ha visto protagonisti Andrea Dulbecco al vibrafono e Bebo Ferra alla chitarra con il repertorio dell’album pubblicato nel 2019 “ Simul”. I loro modelli? “Jimmy Giuffre” cui Dulbecco ha dedicato “Jimmy”, Lee Konitz, con una magistrale interpretazione di “Subconscious Lee”
(brano che percorre le armonie di “What is this thins called Love”), Swallow, di cui propongono “Ladies in Mercedes”, ma anche “Everything I love” di Cole Porter e perfino Bill Evans, anche se c’è voluto il bis per pescarlo dal cilindro, dopo aver incantato i presenti con composizioni come “Fable” (Ferra) e “Blanca” (Dulbecco).
Nella prestigiosa Sala dei Giganti hanno mostrato la notevole tecnica di cui sono capaci Joey Calderazzo (pianoforte) e Miguel Zenón (sax alto), accompagnati da Orlando le Fleming al contrabbasso e Donald Edwards alla batteria. Un concerto sempre al massimo, con un bell’omaggio a Michael Brecker, “Sea Glass”, e, in generale, caratterizzato dalla densità dei fraseggi e delle idee musicali.
Più rilassato e attento ad una scaletta maggiormente dinamica si è rivelato il concerto del quartetto guidato dal sax tenore di Robert Bonisolo, con Dario Carnovale al piano, Lorenzo Conte al contrabbasso e Ferenc Nemeth alla batteria: un gruppo di amici che si stimano e si ascoltano a vicenda, sia nell’interpretazione dei brani originali, per esempio le ispirate “Are you all the things?” di Carnovale e “SOS” di Francesco Geminiani
, sia nella rilettura dei classici: “Inner Urge” di Joe Henderson, “Ladi Day” e “ESP” di Wayne Shorter, nell’intelligente arrangiamento di Nemeth,
“One finger snap” di Herbie Hancock.
Il concerto che ha lasciato il segno più profondo è stato quello ospitato nell’aula magna del Dipartimento di Fisica dell’Università di Padova con il trio del batterista svizzero Florian Arbenz con Greg Osby al sax alto e l’olandese Arno Krijger all’organo Hammond. Arbenz e Osby suonano insieme dal 1998 e trasmettono una profonda sintonia. Arno Krijger si è unito a loro in occasione del concerto “casalingo”, il dodicesimo che Arbenz organizzò durante il lockdown. Il gioco di bassi (col piede sinistro) e di armonie aperte di Krijger si sposa perfettamente con la poetica del duo Arbenz-Osby e ricostruisce di volta in volta un vestito nuovo per le composizioni di Arbenz: “Boarding the beat”, “Sleeping mountain”, “Old shaven”, l’animata “Stomp”, l’eterea “The passage of light” arricchita dal suono di tre kalimbe. Altrettanto ispirata è la rilettura dell’Eddie Harris di “Freedom Jazz Dance”, un autore e una grammatica musicale con cui mostrano piena sintonia.
Alessio Surian
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