Salutata da una fitta presenza di pubblico, questa ripresa in tre date al San Ferdinando dello spettacolo "Oylem Goylem" (“Il mondo scemo”, in yiddish) di Moni Ovadia, a trent’anni dal suo debutto, è stata un successo innanzitutto dovuto (e tributato) al suo magistrale artefice, un Ovadia sempre in forma, a dispetto del tempo che passa, e sempre grande mattatore scenico; poi anche alla musica, coinvolgente e trascinante grazie alla affiatatissima performance della “Moni Ovadia Stage Orchestra”; infine, ma non certo per ultimo, a una sorta di feeling che ci è parso subito instaurarsi tra il pubblico napoletano, l’artista in scena e soprattutto il tema trattato, che poi è quello dell’“ebreo errante” e in particolare degli ebrei askenaziti in diaspora dall’Europa centro-orientale, tra Ottocento e Novecento.
Comunità che erano purtroppo ghettizzate, a dispetto delle qualità dei singoli, spesso molto industriosi e intelligenti, o dei grandi sforzi fatti anche collettivamente per integrarsi (“assimilarsi”, come dicono gli studiosi della materia) nelle società dei paesi che via via li ospitavano; ma che, quanto più venivano bistrattate ed indotte all’esilio, tanto più mantenevano il contatto con la loro lingua madre, lo yiddish, ossia quell’incredibile miscuglio di tedesco ed ebraico, con innesti di polacco, russo e di altre lingue slave. Una lingua che a noialtri europei mediterranei risulta - com’è risultato anche durante lo spettacolo - dura ed ostica, e che obiettivamente non appare spiccatamente musicale; ma che invece era apprezzata da scrittori
ed intellettuali di grande levatura, come Kafka o Singer, che sicuramente era molto efficace tra i suoi parlanti (ed Ovadia evidentemente è tra questi, giacché non è che la mastichi, ma la padroneggia proprio, forse avendolo molto ascoltata quando era bambino) e che infine, strano a credersi, si presta nient’affatto male all’intonazione musicale, come provato dalle canzoni eseguite, con la loro notevole vena melodica, oltre che l’innegabile verve ritmica.
Dunque Ovadia, con la sua tecnica attorica da grande istrione qual è, ha presentato una storia, anzi tante storie, dai contorni a volte epici e più spesso grotteschi, sovente tristi, o meglio malinconici, come lui ama dire (ricordando che l’equivalente semantico moderno, “depressione”, non ha certo la stessa valenza). Storie immancabilmente agro-dolci, permeate di una sottile ma profonda ironia ed autoironia, che poi era (e ora non è più, vista la brutalità del presente) una cifra tipica di quel popolo “eletto” che sono gli ebrei, anche e forse più appropriatamente chiamati “popolo del libro”.
Dove per ironia – e questo il nostro lo ha dimostrato in modo davvero magistrale – non va certo inteso il senso puramente comico, insomma quello che ti fa sganasciare dalle risate, perché quello non c’era né era atteso in questo spettacolo. Qui piuttosto l’ironia, o l’umorismo che dir si voglia, è ottenuta dallo sguardo, divertito e divertente, estroverso ma anche introverso, che ha l’ebreo che ben conosce la caducità esistenziale: quello sguardo posseduto, sia pure dietro lenti spesse e su un viso
bruttino, incorniciato dalle immancabili treccine o sotto un pesante cappello, posseduto, dicevo, soltanto da chi ne ha passate tante e da chi sa canzonare l’altro ma senza offenderlo, perché prima di tutto sa prendere in giro se stesso, consapevole com’è, anzi fin troppo conscio, dei propri limiti e difetti, somatici (il naso adunco o la gobba), caratteriali (l’avarizia), affettivi (il “mammismo”), o esistenziali che siano (l’essere ramingo per il mondo, il sentirsi sempre esule, ecc.).
Leggiadri, appunto, o volutamente goffi apparivano i passi di danza eseguiti spesso e volentieri da Ovadia sul palcoscenico, così come leggeri e apparentemente scanzonati erano i toni delle sue parole o delle sue canzoni (tutte rigorosamente in yiddish), queste ultime a loro volta molto varie, inneggianti ai temi dell’amore, del denaro, della nostalgia, della religione, del tempo e della morte.
Ma a colpire più di tutto erano le parole di Ovadia: sempre assai precise, accurate, rivolte a buoni intenditori, ben forbite ed ottimamente scandite. Adatte, insomma, a tratteggiare con maestria i personaggi via via presentati, nella cui composita galleria egli ci ha immesso quasi senza che ce ne accorgessimo, conducendoci lungo i temi dell’esilio e dell’erranza, da un continente all’altro e da un tempo all’altro, e dunque tra miseri venditori e intellettuali finissimi, mistici allucinati e riccastri spietati, madri possessive e spose sensuali, rabbini un po’ spaesati e psicologi ultra-ortodossi.
Insomma, un’autentica galleria di “minori e minimi” dell’umanità, ma non già di derelitti, vale a dire di individui molto spesso sfortunati (ma non sempre, c’erano pure i Rothschild!), però comunque dotati di testa ben pensante. Com’era, ad esempio, quel tale commerciante Moshe Moskovitz, tipico ebreo macilento e povero fino al midollo, ma debitamente “circonciso a Varsavia”, che affronta con la propria numerosa e ancor più povera prole l’odissea transoceanica per arrivare in America, dove per prima cosa sconta la lunga quarantena a Long Island, per disinfettarsi dai parassiti (“quelli fisici, ma soprattutto quelli ideologici”); dopodiché si rimbocca le logore maniche e impara al volo la lingua, comprendendo che nel paese del dollaro e dei “drugstore” egli ha davvero trovato la propria “terra
promessa”, tanto da riuscire, infine, a raggirare perfino lo yenkee “Charlie bello”, nerboruto razzista e antisemita, americano “one hundred per cent”, ma stolido.
Sono tutte “orme e spettri”, come dice Ovadia, bagliori di un popolo-fantasma che ora certo non c’è più, seppellito dal tempo e dall’olocausto, ma che allora altro non aveva che la propria fede incrollabile, il culto degli avi e l’amata lingua-madre (“lingva mama”), lo yiddish, oltre ad un sanissimo realismo che poi è lo stesso che induce anche gli ebrei di oggi a divertirsi a più non posso, quando è il momento (mica stanno solo a pregare piegando il capo avanti e indietro!), o a ubriacarsi e ridere come pazzi degli altri e dei propri tic, e a suonare e cantare in un modo sfrenato, forse ignoto agli stessi occidentali. Bello quando Ovadia dice: “ogni uomo ha diritto a una buona vita”.
Notevole il clima di silenzio e di raccoglimento quasi religioso con cui il pubblico ha seguito lo spettacolo, decisamente rapito dall’affabulazione di Ovadia e dalla sua straordinaria capacità mimetica, davvero degna dello Zelig di Woody Allen. Come pure dal potere incantatorio della musica klezmer, la quale non è e non può riassumersi, questo vogliamo ricordarlo, in una formula sterile di “melodie ebraiche” ripetitive, ove con ciò alludo alla scala “modale ebraica”, con quella inconfondibile caratteristica di avere la seconda e la sesta nota della scala abbassate di un semitono. Il Klezmer suonato dalla Moni Ovadia Stage Orchestra (Michele Gazich al violino, Giovanna Famulari al violoncello, Massimo Marcer alla tromba, Gian Pietro Marazza alla fisarmonica, Marian Serban al cymbalon) è molto più di questo, è all’insegna dell’incrocio di stili e dell’alternanza continua dei toni e delle “circostanze musicali”, dal clima di preghiera sinagogale all’impetuosa festosità di canzoni e ballate composte per i matrimoni e le altre occasioni liete della vita.
Gianluca D’Agostino
Foto di Maurizio Buscarino (1), L. D'Agostino (2), Zappettini (3)
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