Mouez Breiz: la nascita del disco in Bretagna

È rimasta attiva fino al 1976 quando ha cessato le attività, pubblicando in quel quarto di secolo quasi 300 dischi per un totale di 1.600 titoli: dalle messe bretoni del Pays Bigouden alle corali profane, da nomi divenuti in seguito famosi come quelli delle tre sorelle Maryvonne, Thasie e Eugénie Goadec a gente rimasta sconosciuta ai più. Finanche alle iniziali registrazioni per arpa celtica (Telenn Geltiek), arrangiate dal padre Jord, di un giovane Alan Cochevelou non ancora divenuto Stivell. L’artigianale etichetta era stata fondata dal kemperese Hermann Wolf, nato all’interno di una famiglia di musicisti. Il nonno, di nazionalità tedesca, era botanico e viveva principalmente in terra Svizzera ma era anche organista; il padre, omonimo Hermann, era costruttore di organi e da Nantes si era stabilito a Kemper alla fine del XIX secolo. Verso il 1910 aveva abbandonato definitivamente questa attività, avendo nel frattempo aperto un negozio di musica in Place Saint-Corentin dove vendeva strumenti e spartiti. Capitava però che occasionalmente vendesse anche qualche sporadico disco e il figlio (che gli subentrò nel 1926) si mostrò subito particolarmente interessato alle tecniche del suono in continua evoluzione, alle registrazioni e alle incisioni. Al termine del secondo conflitto mondiale, dalla sua posizione professionale privilegiata tastava il polso della situazione e si rese conto chiaramente delle crescenti richieste di vinili sia da parte degli amanti della musica bretone che degli occasionali visitatori in una Bretagna che nel dopoguerra era diventata meta turistica estiva dei parigini. L’offerta però era purtroppo assai limitata. Nel 1947 erano ripresi i piccoli festival in Cornovaglia e fu in quegli anni che, con altri intrepidi e appassionati melomani (Bernard de Parades, Loeiz Ropars, Pierre Helias, Polig
Monjarret), si decise a fondare l’etichetta Mouez Breiz. Negli anni ‘50 del secolo scorso, quindi ben prima del grande revival folk di un paio di decenni seguente di cui fu protagonista principale Alan Stivell, si ebbe un iniziale risveglio musicale bretone con la nascita e il proliferare di bagadoù create entusiasticamente in ognidove e con le prime interpretazioni della musica regionale al di fuori dello schema classico “bombarde/biniou” (es. “voce/pianoforte”, “voce/arpa” o “voce/chitarra”). Fu il primo sostanziale scostamento dalla tradizione pura ed è proprio questo a venire incarnato dalla produzione Mouez Breiz. Oltre ai suoni erano prestate particolari attenzioni anche al risalto delle copertine dei dischi, affidandosi a degli illustratori talentuosi, tra cui lo studente quimperois di Belle Arti, Mikel Chaussepied. Era una rottura netta con la consuetudine, questo non affidarsi più sempre e solo a paesaggi naturalistici o a ritratti fotografici del singolo musicista in questione. Inoltre, alle tematiche della tradizione, i repertori interpretati attingevano, avanguardisticamente, a racconti o a testi letterari di alcuni celebri poeti bretoni come Per-Jakez HeliasTristan Corbiere o Anatole Le Braz. La sua “speranza bretone” che attraversa le arie nella Primavera d’Armor, i castelli sepolcrali sospesi dal gelo in un tempo irreale, i boschi solenni dove elfi con grazia selvaggia ammaliano sia nobili che briganti, di cui scriveva, assumevano un’aria ancor più epica se musicati e cantati. E lo stesso quel mare bretone che affascina, tiepido, femmineo e sensuale quando si trova vicino a terra e diventa spaventoso, cupo e gelido allontanandosi al largo tra le nebbie. Finalmente tutti avevano la possibilità di ascoltare le registrazioni dei suonatori di antichi Circoli Celtici come quello di Erquy dove ancora
qualcuno era a conoscenza delle più antiche danze del passato. E poi comparivano i suoni dei concorsi di kan ha diskan e dei primi festival che riunivano le voci di quelle che allora altro non erano che giovani e talentuose soliste cresciute nelle tradizioni familiari come Andréa Ar Gouilh, Eliane Pronost o Elanan Kabiten. La prima, originaria del villaggio di Pluguffan, a pochi chilometri da Kemper dove trascorse la giovinezza, registrò con l’etichetta durante il biennio 1959-1961, il suo primo pugno di 45 giri accompagnata dall’arpa un adolescente Alan Stivell, dopo aver riconosciuto la propria identità e appartenenza a un popolo attraverso le antiche canzoni profane del Barzaz Breizh. Una quindicina di anni dopo la conosceranno e applaudiranno fino in Giappone in coppia con l’arpa di Myrdhin. La seconda, Eliane Pronost è stata un’altra pioniera del canto popolare bretone moderno fin dal 1951, una Penelope oscura dalla voce d’oro al pari di Andréa Ar Gouilh. Era tredicenne quando iniziò a cantare a Molène e a Plouguerneau gioie e pene delle genti di mare ma anche canzoni gallesi, irlandesi o di Scozia, come Hirvoudou che celebra la bellezza mista a malinconia di un amore sfortunato lungo le rive del fiume Abhainn Dhùin “Oh, valloni perché siete così belli? Uccelli come potete cantare quando il mio ingrato amante mi ha rubato la rosa e lasciato la spina?”. Un testo di Paotr Tréouré (pseudonimo letterario dell’abate Aogust Konk, Augustin Conq in francese, conosciuto anche con l’appellativo An aotrou Konk) tratto dalla celebre The Banks O’ Doon (1791) del poeta scozzese Robert Burns su melodia di James Millar. Nella versione bretone il lamento può essere inteso sia al maschile che al femminile. La versione di Tréouré renderà la canzone assai celebre dopo la sua morte (avvenuta nel
1952) in Bretagna e accompagnerà l’infanzia di Alan Stivell che con il doppio titolo vorrà riprenderla nel suo CD Brian Boru (1995), interpretando la parte in lingua inglese e lasciando curiosamente il canto solistico bretone a Tracey Booth. Dopo aver inciso per Mouez Breiz, Eliane Pronost preparerà anche un’operetta in lingua bretone assieme a Glenmor, Youenn Gwernig e Pierre-Yves Moign, rimasta inedita, i tempi non erano evidentemente ancora maturi prima degli anni sessanta. La terza cantante, Elanan Kabiten era invece la prima voce di Le Tregeriz (in trio con Soazig Noblet all’arpa e Robin Troman al flauto), i primi troubadours a testimoniare la poesia popolare contadina di Anjela Duval che iniziava a donarsi le ali della musica. L’esordio in LP da 25 cm. prodotto da Mouez Breizh fu “Zaïg chante la Bretagne” a nome Zaïg Monjarret e godeva dell’accompagnamento di Gérard Pondaven all’organo e al pianoforte, vide la luce nel 1953. Il primo 45 giri apparve invece sul mercato due anni dopo, si intitolava “Suite bretonne en forme de masse basse” ed era attribuito al solo Pondaven, organista assai celebre in quel di Saint Corentin. Bisognerà attendere il 1961 per vedere in catalogo, i primi 33 di 30 cm e il 1966 per quelli di 17 cm. Gli artisti coinvolti provenivano da svariati angoli della Bretagna ma anche da Irlanda e Scozia, dalla quale, tra le due guerre mondiali, era nel frattempo giunta nella regione la grande cornamusa utilizzata nelle pipe-band tradizionali che sarà all’origine delle bagad bretoni. Nel 2016, una scelta di ventisei di questi dischi ha avuto pregevole ristampa in formato CD (anche se di problematica reperibilità al di fuori di Bretagna) da parte di Keltia Musique, famosa casa di produzione e distribuzione fondata nel 1978 dal suonatore di cornamusa Hervé Le Meur, co-fondatore nel
1949 anche della celebre leggendaria Bagad Kemper, una delle prime Breton Pipe Bands, tutt’ora assai attiva. Mouez-Breiz resta un patrimonio unico nella memoria sonora della Bretagna, della sua vita musicale quotidiana legata a quegli anni che oggi si sono allontanati così rapidamente. Un’epopea che ha permeato la storia bretone e più in generale quella francese (nonostante le ripetute sottovalutazioni) e che dalle radici di quegli albori discografici ha visto sorgere altre mirabili etichette bretoni: Arfolk nel 1967 (a Lorient), Kelenn nel 1972 e Velia nel 1974, (entrambe a Saint-Brieuc) o Keltia III nel 1975 (ad opera di Stivell), fino a quelle rigorosamente indipendenti quali Névénoé nel 1973 o Droug nel 1975. Oggi, in questa epoca di presenze globalmente virtuali, tutto ciò è considerabile appartenere a una nuova “preistoria”. 

Flavio Poltronieri

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