Il Brasile di Egberto Gismonti

 Gismonti dalla chitarra classica a sei corde, nel 1973 è passato a una a otto e infine a dieci, che è uno strumento assai differente da quella a dodici che le ha sovrapposte a coppie, nella sua tutte le corde sono invece affiancate singolarmente e il manico ha una larghezza impressionante (in seguito si cimenterà anche con una a quattordici corde). Sperimenterà lungamente svariate accordature, ricorrendo anche a flauto, kalimba, sho, voce, campane. Una volta ha affermato che per lui esistono “solo due tipi di musica: uno di cui ho bisogno oggi per vivere e un altro di avrò sicuramente bisogno domani” mentre il suo Brasile lo ha definito “il frutto che nasce da semi di cui non sappiamo più a chi appartengano”. Questi frutti Gismonti li ha cercati per convertirli nelle dense tessiture sonore di composizioni e improvvisazioni, in cui unire i suoi mondi cercando con note proprie di farne riassunto. Reinventando storie strumentali da decenni ricoperte di melensaggini varie, cialtronerie e retoriche da cartolina da Bahia, le sue atmosfere assumono così un po’ anche dimensione simbolica di recupero di una ricchezza espressiva originaria. Restando nell’ambito dei dischi ECM, sensibili jazzisti di fama negli anni hanno voluto condividere i suoi suoni e gli effetti di quelle scale e risonanze. Oltre al conterraneo Nana Vasconcelos anche Jan Garbarek, Collin Walcott, Ralph Towner e Charlie Haden, destinatario di una 
toccante recente reinterpretazione di “Silence” all’harmonium in duo con la voce della figlia del contrabbassista scomparso, Petra (singolo, estate 2021). Chitarristi quali Paco de Lucia o Mahavishnu John McLaughlin l’hanno indicato come proprio musicista preferito. Ha ricevuto il titolo di Dottore Honoris Causa dall'Università Federale dello Stato di Rio de Janeiro nel 2017, lo status di Comandante dell'Ordine al Merito Culturale nel 2005 ed è stato ritenuto uno dei principali compositori brasiliani contemporanei al Festival Brasiliano di Musica Contemporanea nel 2018. La musica popolare brasiliana è nata con l’abolizione nel 1888 della schiavitù e l’inizio dell’integrazione razziale e culturale mentre prima di allora vigeva una netta separazione tra gli elementi europei e quelli africani. Al Brasile, non essendo in possesso di modelli filosofici o economici paragonabili a quelli americani, non rimanevano che letteratura e musica. Un diffuso atteggiamento di presunta “superiorità” occidentale ha sovente fatto ritenere “esotici” i suoni brasiliani anche perché in quel continente, a differenza di quello dei dominatori, il mescolarsi delle razze ha portato a degli interrogativi sulle proprie origini che in Europa non ci si è posti. Ancor oggi c’è qualcuno che ritiene che la cultura brasiliana sia rappresentata dal carnevale di Rio e poco altro. Gli Indios autoctoni possedevano una propria musica folklorica primitiva legata alle cerimonie religiose o guerriere,
composta da danze rituali e canti vicini al recitato, abbondavano inoltre invocazioni e ringraziamenti alla natura con una strumentazione basata su fiati e percussioni. E’ purtroppo storia che il progressivo indottrinamento cristiano-europeo abbia cancellato violentemente questi loro suoni assieme a molto altro. In Brasile è scampato il solo “chocalho”, una forma poetica (strofa/ritornello/strofa…) di canto nasale dall’andatura recitativo-melodica suonata su uno strumento cavo riempito di semi oppure di sassolini, peraltro neanche quello completamente immune dalle influenze gregoriane apprese dai missionari. Il termine generico “chocalho” identifica comunque un po’ tutti gli strumenti a percussione. A favorire l’utilizzo della manodopera degli schiavi africani in terra carioca fu l’impossibilità da parte dei portoghesi di sfruttare gli indios. “Importarono” forzatamente quindi sudanesi yoruba e musulmani occidentali nello stato di Bahia e bantu da Angola, Congo e Mozambico sia nel nord-est del paese che a Rio de Janeiro. Anche i loro canti di tradizione avevano funzioni religiose e ancora una volta il cattolicesimo europeo si impegnò a contaminarli violentemente, sempre con lo scopo di “non lasciarsi sfuggire quelle anime”. Nei casi poi in cui capitava che i padroni-colonizzatori offrissero, al fine di avere orchestrine nere per il proprio diletto, una istruzione musicale, essa era di stampo prettamente occidentale. L’unione dei moduli musicali neri con quelli europei ha finito per generare nella musica popolare brasiliana alcune particolarità come, ad esempio, un ritmo sincopato tipico africano che era prima di allora, sconosciuto. Ovviamente l’eredità portoghese ha potuto dilagare anche perché in Brasile i testi musicali sono sopravvissuti in maniera molto inferiore a quelli letterari e non esistono canti tradizionali trasmessi da una generazione a un’altra. I ritmi e le melodie di stampo africano saranno quelli che avranno immediata presa presso i jazzisti neri americani di un’epoca successiva, possedendo radici comuni. La musica brasiliana risulta l’opposto di quella jazz nera di protesta, il suo popolo si connota per un fatalismo e una tristezza priva di rabbia, per un’assenza pressoché totale di tematiche angosciose o drammatiche. Il carnevale stesso è da sempre in generale una delle manifestazioni popolari tipiche dei popoli oppressi e tristi, reazione collettiva dove si sovvertono
condizioni sociali, che il giorno dopo però torneranno le stesse. Durante gli anni Sessanta del secolo scorso, la progressiva scoperta anche grazie al jazz, di compositori classici quali Debussy o Ravel e il lirismo letterario dalle atmosfere rarefatte di autori quali Vinicius de Moraes, depotenziarono la ritmica, creando qualcosa di molto sofisticato ma lontano dall’essere definibile popolare. In effetti la bossa nova era una musica più europea che brasiliana (disgiunta dal samba tradizionale) e si rivolgeva a una élite intellettuale. Poi incontrò un successo strepitoso trasformandosi in ambientazione da night club per serate romantiche a luci soffuse, almeno fino alla comparsa sulla scena alla fine degli anni Sessanta, del tropicalismo incarnato da Gilberto Gil, Tom Zé, Maria Bethânia e da suo fratello Caetano Veloso. Ma in campo jazzistico l’urlo più deflagrante e viscerale che, a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, si stagliò contro con il feudalesimo di tutte quelle democrazie della povertà che componevano il continente sudamericano, fu quello del sax tenore dell’argentino Leandro “Gato” Barbieri (1932-2016). Esempio di una world music ante litteram, in cui il jazz incrociava per la prima volta le strade dell’America Latina, non senza valenze rivoluzionarie e politiche, che nel caso del Brasile sarebbero state valide anche per gli anni recenti di politiche irresponsabili e criminali di Jair Bolsonaro (come se non bastassero le povertà allucinanti delle favelas o le distruzioni delle foreste per la costruzione di autostrade). Nato a Rosario al pari di "Che" Guevara, si deve musicalmente al suo free jazz il recupero di una cultura sconosciuta come quella boliviana, dimenticate come quella argentina o male interpretata come quella brasiliana, il tutto in radicale reinvenzione. In quegli anni all’interno del jazz la musica brasiliana significava esclusivamente colore percussivo al servizio di altri protagonisti, molti artisti famosi li hanno intesi e all’occorrenza utilizzati, in questo modo, tra cui Miles Davis, Weather Report o Keith Jarrett. La brasilianità delicata dei dischi ECM di Gismonti è invece lontanissima dal ritmo e lo stesso stile percussivo del suo accompagnatore favorito Nana quando c’è, è rarefatto, cromatico,
ricama colori negli squarci lasciati aperti dalla chitarra. Giocando sulla musicalità amazzonica ci ha mostrato come i vuoti siano più apprezzabili dei pieni e, come si trattasse di un acquarello, ha dipinto il lato animista, latebroso ed evocativo del proprio Brasile. Egberto Gismonti ha contribuito a dimostrare, al pari della poesia di Manoel de Barros, come tutto in natura abbia significati organici e che essa sia in effetti la sorgente unica di ogni umana ispirazione “Fôssemos merecidos de água, de chão, de rãs, de árvores, de brisas e de graças! Nossas palavras não tinham lugar marcado. A gente andava atoamente em nossas origens. Só as pedras sabiam o formato do silêncio. A gente não queria significar, mas só cantar” (“Fossimo degni di acqua, terra, rane, alberi, brezze e grazie! Le nostre parole non avrebbero un posto assegnato. La gente vagherebbe inutilmente nelle proprie origini. Solo le pietre saprebbero il significato del silenzio. La gente non vorrebbe esprimersi, ma solamente cantare”)


Flavio Poltronieri

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