Leonard Cohen, La Danza dei Lebbrosi, Giunti/Bompiani, 2023, pp. 276, Euro 22,00

“...non cercherò di giustificarmi di questi tempi...avrei bisogno di un lessico diverso e di un pubblico diverso ma non voglio un vocabolario diverso o un pubblico diverso, voglio te...te che ti giri dall’altra parte, non voglio che ti giri, che abbassi le palpebre come cancelli inespugnabili...che ti tuffi con lentezza in quelle grotte profonde dove non potrò seguirti...” 
Quando all’inizio degli anni Sessanta l’allora sconosciuto scrittore Leonard Cohen propose la pubblicazione di “A Ballet of Lepers” (prosa degli anni 1956/1957) incontrò più di un rifiuto, non sono queste le uniche pagine rimaste a tutt’oggi inedite e altre sicuramente vedranno la luce in futuro”. Il libro (“La Danza dei Lebbrosi” – traduzione di Marco Rossari – medesima copertina dell’originale, arrivato sul mercato anglofono un anno fa) è composto dall’omonimo romanzo a cui sono stati aggiunti quindici racconti brevi e un copione dal titolo “Baratto” che non ha avuto in seguito ulteriori sviluppi. Tutti risalenti al periodo a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso. Abbastanza lontano formalmente dal cantautore che verrà, le sue parole denotano già comunque un’ossessività tematica caratteristica, composta da un miscuglio di squarci di mortificazione biblica, decadenza generazionale, glorificazione di impulsi sessuali, concatenazioni familiari di cultura ebraica, immagini naziste, tossicità relazionali. Chi sono dunque i “lebbrosi” di Cohen? In greco la parola ha il significato di “scabroso”: questa terribile malattia è la più antica della Terra, ritenuta simbolo di impurità biblica, nei capitoli 13-14 del Libro del Levitico, la Legge escludeva dalla società chi ne soffriva, relegandoli ai margini dell’esistenza, ai confini di buio e dimenticanza. E che significato assume il verbo “amare” per un essere umano? Cohen dimostra già a ventidue anni di essere autore coraggioso e lucido, di aver in fretta raggiunto nel suo animo, convinzioni profondamente radicate e lontanissime dagli illusori romanticismi tipici della sua età. Ne “La Danza dei Lebbrosi” l’amore viene trattato dall’altra sponda della visione classica del Romanticismo e delle sue più intime soddisfazioni affettive, come avverrà invece piuttosto nel romanzo seguente “Il Gioco Favorito” (1963), certamente più gratificante per il lettore. Salvo poi fare molti passi nella direzione opposta con le vivisezioni impietose e crude di “Belli e Perdenti” (1966). Ne “La Danza dei Lebbrosi”, a sé stesso narratore e al proprio anziano nonno improvvisamente ritrovato, che sono i due principali protagonisti del romanzo, Cohen non ritiene di assegnare neppure un nome proprio che li identifichi, forse per spersonalizzare e universalizzare le situazioni descritte. Il suo tratto principale è riservato a una violenza, sovente apparentemente immotivata, che lascia attoniti e purtroppo ben si lega anche alle realtà delle nostre società contemporanee. Sempre più trasmissioni televisive raccontano infatti di eventi delittuosi quotidiani, andando quasi disperatamente, alla ricerca spasmodica delle motivazioni psicologiche che li hanno scatenati. Non risparmiandosi nell’esposizione di superficiali ragioni analitiche per feroci sopraffazioni nei confronti anche di soggetti più deboli e indugiando sulla perdita di apparenti qualsivoglia logiche, seppur criminali. Giorgio Gaber e Sandro Luporini hanno avvicinato talvolta in passato queste tematiche all’interno del loro teatro-canzone (“Io se fossi Dio” - “Mi fa male il mondo” - “C’è un’aria”), manifestando anche una certa indignazione nel ritenere che esistano per taluni argomenti, dei limiti sia di dicibilità che di competenza che non andrebbero, anche moralmente, varcati. Nel romanzo di Cohen, si assiste da parte del nonno, a una serie di furibondi gesti d’ira che lasciano senza fiato e nei quali disgusto e orrore sovrastano qualsiasi bellezza, poesia o tenerezza. L’anziano prende con disprezzo e senza limiti, a bastonate fino quasi a provocarne la morte, alcuni innocenti malcapitati, seppur mossi dalle migliori intenzioni nei suoi confronti, come fosse in preda a sconosciuti impulsi primigeni e incontrollabili “...non esiste persona che non si sia lasciata conquistare da un sogno a occhi aperti fatto di violenza...i giovani, le canzoni, l’armatura, i violinisti, il fuoco sull’acqua, il giuramento, il voto, la promessa, l’alleanza...” La penna di Cohen, come bisturi affilato, cerca di descrivere questa “banalità del male”, questa violenza del sangue, inspiegabile e cieca, che comunque non è da meno di quella propria, senz’altro più psicologica, raffinata e meditata, che vediamo affiorare in altri passaggi del libro. Come quando perseguita in modo ignobile e sadico, un miserabile addetto ferroviario agli oggetti smarriti, colpevole unicamente della propria bruttezza fisica, infierendo su di lui con una vera e propria persecuzione “...che storie ci hanno raccontato sui cavalieri splendidi e le fanciulle delicate? perché abbiamo le stesse parole per descrivere la bellezza del corpo e la bellezza dell’anima? parliamo di quelle leggende del cristianesimo sulla bellezza degli oppressi e degli invalidi: com’è che sono appassite così al cospetto dell’eroe impettito?…”. Il protagonista-carnefice si immedesima nella figura della vittima, a cui cerca di far patire i propri sensi di colpa, disagio e disperazione, infliggendogli un tradimento nel tentativo delirante di insegnargli a non tradire: “...lava il tuo sangue nelle acque terse del dolore, fai della tua carne un filtro per il fiume dell’angoscia e delle tue ossa un canale per l’alluvione dell’amarezza…”. In una esplosione d’onnipotenza si erige sopra di lui, investendosi del compito di far comprendere all’impiegato, come si trattasse di un assurdo rituale, i crudi e devastanti effetti della contaminazione affinché possa giungere ad essere puro e della violenza per pacificarlo: “...era ribollita dentro di me un’antica vergogna, un antico senso di colpa, un’antica umiliazione, più antica del mio corpo e del suo corpo, più antica delle parole e del mondo, più antica di Dio stesso, la creazione era l’inizio della vergogna, la nascita della prima stella, la coltellata violenta nel nulla che aveva fatto scaturire le rocce e l’acqua e la carne...la vergogna trasformò lo spazio in aria e la luce in roccia…”. Ma, nello svolgersi del racconto, la ferocia non risparmia neppure l’amore delle due donne che si concedono con sincero trasporto e benevolenza rispettivamente a nipote e nonno. Una violenza che sembra essere desiderio ancestrale ed è segno evidente, al di là delle iniziali intenzioni (... il sudore è profumo, i gemiti sono oro, i sospiri sono campane, i brividi sono argento…”) della più completa impossibilità di mantenimento di relazioni stabili che Cohen sosterrà nelle sue opere future, anche musicali. È stata sempre sua intima convinzione che, tra i segreti e le trame dei corpi amati, le unioni umane siano inevitabilmente destinate all’autodistruzione per noia, stanchezza o abitudine, senza bisogno di inutili o futili dissertazioni, spiegazioni o analisi e nonostante falso-romantiche promesse: “...ti corteggerò con profumo, spezie e pizzi, ti metterò in mano la poesia e i fiori che ho raccolto passando attraverso la cascata – non avrei mai dovuto dirlo, avrei dovuto dire – lasciami, sono perseguitato dal corpo di una donna ma non m’importa di chi sia...non capisco niente di quello che hai detto...tu vuoi l’amore e io non so cosa voglio...”. Cohen scrive che non servirebbe a salvare i rapporti neppure “l’onestà di restare in silenzio” perché “...gli amati dell’anno scorso sono gli stessi di quest’anno, sono gli amanti a essere cambiati, l’amore è costante...quando la musica si ferma ci sono pochi sfortunati che non possono continuare il gioco, tutti gli altri trovano un posto libero prima che ricominci...nella zuffa ci sono cuori sbucciati...la letteratura è fatta dai feriti...non dico che non sia triste...”. Al sentimento amoroso l’autore applica quindi la sua analisi spietata, la frase stessa “fare l’amore” gli risulta ben presto stridente, definendo l’impegno di due persone a donarsi reciprocamente piacevoli ed effimere sensazioni fisiche come si trattasse di un lavoro e come tale da compiere doverosamente nel migliore dei modi. La portata dei più profondi e naturali bisogni umani viene trattata come gioco, dalle regole non scritte ma precise che si susseguono come in una recita. Dall’iniziale trasporto di slanci e tensioni emozionali si passa all’acquisizione di sicurezze, man mano che gli obbiettivi vengono raggiunti e inevitabilmente a ciò farà seguito uno sgonfiamento emotivo, non molto dissimile dallo sfaldamento fisico delle carni che compie il tempo con il suo trascorrere. Il copione immaginario prevede sempre che, a questo punto, il protagonista Leonard si sia già sottratto fisicamente, oltre che averlo fatto emotivamente in precedenza. La mistica preghiera invasata e ambigua di Cohen come inno a devozione e sogno di purezza, che infinite volte ameremo nelle sue canzoni, talvolta affiora già anche tra le righe de “La Danza dei Lebbrosi”. I fallimenti della ricerca ossessiva di origine o appartenenza della propria intima natura di “...gloriosi e degradati, cavallereschi e invaghiti, belli e ripugnanti...” portano la narrazione a una trascendenza, a tratti demoniaca, pure in alcune pagine dei racconti brevi che integrano la raccolta. Nei quali piccole cattiverie anche familiari, amicali, affettive o infantili, oltre che mascherare intrepide avventure, visioni eroiche o truci sogni segreti, rafforzano l’idea generale di profonda sconfitta che percorre la vita umana terrena. Come già ribadito, anche il sentimento per l’amante non fa eccezione, nonostante “la tirannia della bellezza nel volto e negli arti” e un “vento botticelliano” in grado di spargere i capelli al vento. Poiché “l’uomo ha bisogno di essere sicuro della propria donna e la donna ha bisogno di essere sicura della propria innocenza”. Cohen non permette mai alle dichiarazioni d’amore di scendere “troppo in profondità” nel proprio cuore e nella propria mente, per lui la tenerezza non fa seguito alla passione ma al fallimento: “le ho baciato i capelli, mi sono ricordato che i capelli sono insensibili”. Il tema dell’intero volume descrive questo amore in preda a una consapevolezza che non lascia scampo, dove le parti paiono assegnate senza possibilità di variazioni o imprevisti. Talvolta qualche rara figura femminile esce dal ruolo assegnatole ed è a quella che Cohen si sente più vicino e rispettoso, a cui augura fortuna, ben lungi da desiderare fermarla, ostacolarla, manipolarla, se non addirittura possederla, sa bene che “la metà del proprio letto è un impero troppo piccolo per un appetito imperiale”. Questi racconti di Cohen citano disagevoli abbracci, sguardi divoranti, meschinità menzognere sparse un po’ ovunque e ad ogni età, nella mappa della passione della città di Montreal. Una Montreal che, a quel tempo, stava mutando pelle, gli edifici rosa pan di zenzero vittoriani erano in via di sparizione con le loro pietre sporcate dal tempo e la carne dei corpi delle ragazze era morbida e liscia al pari delle statue greche. Di quella stessa Grecia che, in uno degli ultimi racconti del volume, fa capolino grazie a una montagna su un’isola nell’Egeo “tinta d’arancio, poi di ambra lucente, quindi di ruggine morta, affacciata sul porto come una lenta onda gigante”. Il poeta afferma che si può essere in grado di avvicinarsi alla propria visione adolescenziale e ai propri sogni di tredicenni ottenendo quello che si vuole, solo attraverso “film tristi, poesie di congedo, accordi in minore, canzoni folk sui compagni condannati” ovvero molto di quello che andrà a comporre, tempo dopo, l’ossatura del suo futuro canzoniere. Qualsiasi passione amorosa è “delicato equilibrio tra attrazione e repulsione” e l’unione tra uomo e donna è capace di trasformare entrambi in una grottesca statua di Giano che contiene contemporaneamente i loro due sguardi rivolti in direzioni differenti. Una trama di piacere e spavento dove una donna incinta “rotola nel letto come un ghiacciaio che si stacca scivolando nell’oceano” mentre il suo uomo, chiuso nelle camere dell’immaginazione, può sentirsi un giorno, progenitore barbarico, oppure “il Mosè di una nuova tribù, il Signor Giulio Cesare Alessandro Gengis Leviatano”. La scrittura di un romanzo è un territorio ben differente rispetto a quello della canzone, ai tempi di questa composizione Leonard Cohen non aveva nemmeno nella recondita fantasia l’intenzione di diventare un cantautore, cosa che accadrà una decina di anni dopo e che riterrà comunque un ripiego o peggio, resa o sconfitta in risposta (in sintonia con i tempi) a quello che considererà il suo fallimento commerciale come scrittore. Sarà anche ripudiato e deriso per quella scelta dall’ambiente letterario canadese ma in compenso acquisirà una serie infinita di approvazioni, fascinazioni e lodi in ambito musicale rock, in Europa più che negli Stai Uniti. Ma anche la tirannia di mercato e pubblico sa essere feroce: il successo e la popolarità arriveranno ma quello che ciascuna delle sue canzoni maschera, generalmente non vorrà essere visto e nell’immaginario collettivo quella di Leonard Cohen resterà superficialmente la figura di un autore romantico che scriveva sublimi canzoni d’amore alle donne. 

Flavio Poltronieri

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