Festival Klezmer, I edizione, Verona, 4-5 Novembre 2023

EVENTO RINVIATO

È la seconda volta che prende il via un Festival Klezmer a Verona. La prima avvenne tra il luglio del 2000 e quello dell’anno successivo, per iniziativa dei musicisti dell’allora popolare Meshuge Klezmer Band locale, che organizzarono due ricche edizioni nello scenario spettacolare del parco Ferroviario di Porto San Pancrazio. Vennero invitati gruppi leggendari sia europei che americani, in qualche modo legati alla Radical Jewish Culture/Tzadik del demiurgo John Zorn, tra cui Klezmatics, Naftule’s Dream, Di Naye Kapelye, Satlah, Frank London’s Klezmer Brass. Tra carrozze d’epoca e locomotive a vapore del complesso austro-ungarico tardo-ottocentesco della stazione di Verona-Porta Vescovo, i suoni di quelle due indimenticabili edizioni del “Klezmer Express” trasportarono il jazz attraverso Carpazi askenaziti, Medioriente ebraico e avanguardia hasidico-newyorkese. Lungo i binari morti e sotto le pensiline in disuso, profumavano i piatti ebraici della “Gran Cucina Errante al Vagone Ristorante”, perfino i biglietti d’entrata erano talloncini originali d’antan in cartone delle Ferrovie dello Stato. In molti contribuimmo a quegli eventi culturali assai partecipati dal
pubblico, poi come nelle più belle favole tutto finì sepolto nel dimenticatoio e nelle scelte conformistiche delle amministrazioni comunali scaligere seguenti. Con grande soddisfazione salutiamo quindi la nascita di questa prima edizione di un nuovo Festival Klezmer, che sarà ospitato nella Sala Maffeiana veronese nel fine settimana 4-5 Novembre 2023, grazie anche all’ausilio della Comunità Ebraica di Verona. I gruppi che animeranno le due giornate saranno Baklava Klezmer Soul (Cuneo), Cidnewski Kapelye (Brescia), The Original Klezmer Ensemble (Trieste), Meshuge Klezmer Band (Verona). Quei nuovi suoni d’inizio secolo non sono più così tali oggidì, il tempo ha sistemato le pedine e anche la musica yiddish ha trovato la propria collocazione precisa nello scenario musicale. Oramai molto lontani dagli shtetl o dal ghetto di Cracovia dove il cantore Mordechaj Gebirtig scriveva che “l’allegria si trasforma in tristezza e l’ebbrezza diventa pianto”. Tra furori e dolcezze liriche metropolitano-contemporanee la loro dimensione passionale è riuscita a mantenersi comunque tra le più coinvolgenti udibili in giro. Sia che rimandi ai percorsi di sentieri antichi, sia che giochi con moderne sperimentazioni o con le spazzole del jazz, il klezmer è musica che, come sosteneva lo scrittore ebro-polacco Isaac Bashevis Singer (riferendosi alla lingua yiddish) “contiene vitamine che altre non hanno”. Gli ingredienti sonori delle sue canzoni sono un miscuglio che assomiglia alla ricetta del’antipasto tradizionale festivo ebraico-aschenazita “gefilte fish”. Si tratta di vecchie folk songs, danze doina, hora, sirba, melodie liturgiche sinagogali, dei ghetti, delle resistenze, composizioni teatrali. Racconti dove tutti cantano, stonano, urlano, biascicano le storie di bambini, sarti, pastori, rabbini di quei miserabili villaggi edificati sulla malinconia. Oppure delle glorie della leggendaria Odessa, città di violinisti, figli del Levante spagnolo, il cui primo insediamento si deve a
un mercenario di origine napoletana. Filastrocche che vagheggiano di milioni d’anni fa quando la terra non era che una palla di lava in fusione, la cui crosta piano si raffreddò, i mari iniziarono a formarsi e i klezmorim si levarono a suonare.  Le storielle ebraiche si divertono a raccontare di come cominciò con una trombetta primitiva in un luogo preistorico, poi tutto si mescolò. Nell’antica Torah si trova un precetto che, proibendo l’utilizzo di abiti cuciti con tessuti misti come, ad esempio, lana e lino, definisce per estensione l’amalgama di tutte le cose che non stanno bene insieme...ebbene le canzoni yiddish infrangono sistematicamente questo dogma! Lo fanno quelle sefardite utilizzando la lingua ladina che unisce spagnolo, ebreo e lingue balcaniche. Lo fanno le melodie che tessono un tappeto sonoro di motivi moreschi e ottomani. Lo fanno i testi che spaziano da Spagna medioevale a Turchia, da Grecia a Bulgaria, da Bosnia a Israele. Lo fa il mistico nigun, aria priva di parole che appartiene alla cultura ashkenazita e che si rinnova di continuo: nel movimento chassidico ogni rabbino ne compone diversi. Ed è con esso che la gente si aggrappa fortemente a D-o, lo fa senza che le frasi vengano ospitate nella voce, la mente
abbandona il senso compiuto delle cose e le sillabe si appiccicano tra loro in maniera libera, formando un tutt’uno con la melodia: “doy doy doy doy doy doy…”. Sono commoventi gli anziani che lanciano nel vuoto le loro braccia magre, dimenando i corpi dinoccolati tra estatiche invocazioni a voce alta. Rincorrendo una lontana infanzia, partecipano forse così a quell’antico proverbio ebraico che recita “il silenzio vale più delle parole ma il canto vale più del silenzio”. E questa musica ci fa ricordare anche preziose figure come quella di Esther Béjarano, scomparsa un paio di anni fa, una delle poche donne sopravvissute all’orrore spettrale delle scarpe “lucide di follia” della storia. Esther, tedesca, figlia di ebrei musicisti in Lituania, suonava il pianoforte e cantava, fin quando a diciassette anni i nazisti non le assassinarono genitori e sorella. Dopo due anni patiti nel campo di concentramento, si inventò di essere una fisarmonicista, per entrare nell’Orchestra delle Ragazze (Maedchenorchester von Auschwitz) che le SS avevano organizzato per tenere alto il morale nel lager. Suonatrici polacche, greche, tedesche, ucraine che si esibivano, al sole e al gelo, presso il cancello del campo per le squadre di lavoro che entravano o uscivano. Tutti le credettero anche se non aveva mai suonato quello strumento perché le sue dita seppero sempre improvvisare gli accordi giusti e il miracolo della musica le salvò la vita. 

Flavio Poltronieri

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