Daniele Tenca è una figura rara di cantautore e raffinato musicista, che potremmo fare fatica a inquadrare nel panorama musicale italiano. Il suo profilo, infatti, si adegua a uno scenario più internazionale: soprattutto americano. Non tanto per la sua musica – che lì affonda chiaramente le radici. Ma soprattutto per un approccio che, nel complesso, riconduce a una scena molto composita che, proprio in virtù di questo, può essere (quando serve) anche ridotta a una matrice secca e dura. Che non si compromette con forme nettamente definite e che non teme confronti o formalizzazioni. Ascolto lo scorrere degli undici brani che compongono “Just a dream” e immagino una grande ampiezza che, a ragione, si descrive con una chitarra sicura e tagliente, un andamento ritmico a tratti ostinato e il ricorso alla lirica piana e incalzante del talking (vedi la versione di “I can’t breath” di H.E.R. e “Cellphone ringtone blues”). Ovviamente c’è molto di più. Ma colpisce, nel novero di canzoni molto composte e, allo stesso tempo, differenti sul piano del timbro, il ricorso a una scena che non si riesce a comprimere dentro un solo registro. E questo – come si può immaginare – rappresenta un ottimo motivo per apprezzare un album suonato con pochi strumenti, al servizio di una grande ispirazione. Ispirazione che, andando anche un po’ a ritroso nella storia di Tenca, elabora, con convinzione e ottimo tocco, non solo un racconto americano – o meglio una lirica, un’epica – ma anche una storia. Nella misura in cui riesce a interpretare quell’ampiezza di cui sopra con naturalezza e, soprattutto, senza inquadrarla in una cornice definita. È evidente che questo assetto non rappresenti un limite – cioè una serie di barriere che inquadrano, per ragioni di convenienza (e quindi anche quando non è necessario) lo svolgimento musicale di un’idea – ma, invero, una rivelazione. Che Daniele Tenca sembra voler ricondurre alla propria visione e, con eguale determinazione, alle possibilità della sua rappresentazione e, di conseguenza, della nostra percezione. In questo quadro così articolato – nel quale nessun elemento è fine a sé stesso, perché asseconda, motu proprio, la successione dei piani del racconto – l’album assume i tratti di un ampio paradigma, dentro il quale riusciamo a intravedere molti spunti di riflessione. Tra questi vi è, senza dubbio (ma la critica ha già percorso questa strada), la vicinanza di Tenca a temi sociali. A temi, cioè, che affiancano il chitarrista milanese alla scena rock-blues-roots americana definita da grandi artisti (sia “storici” che “giovani”): da Springsteen a Seasick Steve, da Ani Di Franco a Gary Clark Junior, e così via. Allora, non potendo non riconoscere questa prossimità (della quale possiamo tutti andare fieri), proviamo ad analizzarne brevemente alcuni tratti. Tutto parte dalle due “voci” principali: Tenca canta chiaro e preciso, utilizza parole dirette e profonde, canta con un’impostazione da narratore. Canta con un approccio da chitarrista. Canta suonando la chitarra (l’altra voce in questione): in molti brani – quelli più rapidi nell’esecuzione, nei quali il nucleo di base rimane più scoperto ed esclusivo – la voce sembra seguire (necessariamente) le corde, accordando e raddoppiano un flusso sonoro perfettamente intrecciato alle regole primarie del blues. In questi casi – come in “Pretty Mama”, “Indifference” e “Dreamkiller” – il risultato è straordinario. Perché vi è una forte impronta estemporanea, che lascia i brani perfettamente incastonati nell’esecuzione, liberandoli da ogni formalismo. Una buona parte di queste brevi considerazioni può convergere nell’ultimo brano dell’album. Si tratta della cover di “This Land” di Gary Clark Jr. A sua volta, come è evidente, il brano ripercorre l’idea fondante del capostipite della canzone “di protesta” americana Woody Guthrie, reiterando in forma di cantilena la frase “this land is mine”. E da qui il passo è breve, faticoso ma coraggioso e fascinoso: “Just a dream”.
Daniele Cestellini
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