Steward Copeland featuring Riky Key – Police Beyond Borders (BMG, 2023)

Sembra sia stato Riky Key – compositore e musicista indiano, già vincitore di un Grammy (il terzo) insieme a Steward Copeland (che ne ha vinti ben sei) con l’album “Divine Tides” del 2022 – a suggerire all’indomito batterista dei Police il progetto “Police Beyond Borders”. Non si può certo dire che sia stata un’idea azzardata. Nel senso che, nonostante il grande lavoro sugli arrangiamenti, la firma del trio e il tocco che ne ha determinato il successo emergono a ogni passo. L’album, che contiene dieci brani destrutturati – o, come ci ha intimato Copeland con il suo precedente esperimento in questa direzione, de-arrangiati – del trio londinese, è uno dei migliori usciti negli ultimi tempi. Per energia e ritmo (manco a dirlo: Copeland non perde un colpo e trascina tutti), intensità e originalità. In più lo sorregge un impianto, un approccio, una visione totalmente world. Nel senso più classico del termine, senza complicazioni né possibilità di fraintendimenti: è stato pensato in ragione di una confluenza di suoni, di una interpretazione internazionale, (è forse bene dire in questi casi?) trans-locale, dentro una cornice apertamente contaminata: una contaminazione (senza troppe articolazioni interpretative) che ha incardinato, semplicemente, la scrittura e l’esecuzione, lo stesso pensiero dell’album e la sua evoluzione, la sua applicazione, la sua realizzazione (qualche esempio: “Every breath you take” e “Don’t stand so close to me” suonate con il Soweto Gospel Choir, “Can’t stand losing you” con Mzansi Youth Choir e Max ZT, “Message in a bottle” con Salim-Sulaiman e Masa Takumi, “Every little thing she does is magic” con il Berklee Indian Ensemble). Insomma, i numerosi musicisti che lo suonano – aggrappati alla forza centripeta della batteria di Copeland – sono stati inspirati dalla destrutturazione della matrice. Come a dire, i brani sono talmente imperniati nell’immaginario collettivo da esserne parte integrante: come un famigliare, un avo, nei cui tratti somatici ci si riconosce, anche attraverso uno sguardo fugace, anche nella reticenza, fosca e profonda, che matura dentro un riflesso involontario, anche attraverso la costrizione di un’ammissione svogliata che quel percorso, volente o nolente, ci ha determinati. Copeland, in questo percorso di reminiscenza, ci va giù pesante. E non per attribuirsi meriti che nessuno al mondo faticherebbe a riconoscergli (il trio è un’essenza rara. È inutile ripeterci – tra anime sensibili e sufficientemente disincantate – che lì ogni strumento è lo strumento. Che lì nessuno di quei pochissimi elementi, basilari e necessari, può fare a meno degli altri. Il trio è una goccia d’acqua che evapora al sole, una perla che si incrina sotto la luce. Accade – e accadde ai Police – che svanisca). Allora Copeland reinterpreta i Police per confermare la grandezza della loro voce, pur in un contesto evidentemente mutato. Un contesto che viene analizzato sia sul piano musicale che (multi) culturale. Come in un riflesso (ancora) inevitabile: delle ripercussioni che la musica dei Police ha sui musicisti, e della riconoscenza che questi hanno per ciò che quelli – per motivi inafferrabili e capacità incomparabili – hanno prodotto. Copeland – la cui anima (a dir poco selvaggia e infaticabile) non si quieta neanche davanti al gigantismo compositivo di Sting, che anzi esalta con un’interpretazione corale e fortemente evocativa – approfondisce il suo solco, scavando a fondo nella composizione (lo fa da sempre) e nell’arrangiamento dei (suoi-loro) classici. Un primo passo, in questa direzione, lo ha fatto poco tempo fa con l’album “Police deranged for orchestra”, un piacevolissimo azzardo che, nella dimensione live, si rinnovava dentro l’avvicendamento dei musicisti. I quali cambiavano a ogni tappa del tour, rinnovando, in questa alternanza coordinata, l’efficacia delle musiche e dello spettacolo. Qui l’efficacia gira intorno a un perno fermo, che Copeland ha cesellato con estrema cura, anche se richiama alcuni espedienti già testati nell’album precedente. Anzi, proprio questa organizzazione generale del lavoro, calata sulla traccia di “Police deranged for orchestra” – entro cui le corrispondenze più esplicite sono l’utilizzo di voci femminili con ampie estensioni e la trasformazione formale del repertorio proposto, che spesso si riconosce proprio grazie ad alcuni appigli strategici – ci offre la possibilità di concentrarci su ciò che Copeland vuole offrirci. Da un lato la sua riflessione sulla solidità storica dei brani. Dall’altro lato, la comprensione piena della loro elasticità formale che, dentro una dimensione etnica che ne amplia il respiro timbrico, si rivela con grande forza e fascino. 


Daniele Cestellini

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