“Archangel Hill” è un album da ascoltare con attenzione e predisposizione. Con attenzione perché ciò che lo rende grande si trova nei particolari e nelle pieghe del suo tessuto musicale e con predisposizione verso qualcosa che musicalmente si allontana dal mainstream generale, puntando ad un’essenzialità che è sostanza. Undici canzoni e due strumentali (il reel di origine irlandese “June Apple” e la morris dance “Swaggering Boney”), scelti da Shirley Collins per trasmetterci una sorta di messaggio, forse una lezione, per dirci cosa ci sia alla base della musica folk di matrice anglo-celtica (con tutta l’approssimazione che questo termine ha e deve avere) e di tanta altra musica, prima fra tutte quella cantautorale in lingua inglese. Con un arrangiamento scarno, quasi fosse la registrazione di una informatrice, ma con la consapevolezza e la conoscenza che le deriva da oltre sessanta anni di ricerca e di musica suonata e cantata, Shirley Collins stupisce ed incanta. E non si tratta dello stupore derivante dalla constatazione che quella che ascoltiamo è una signora ottantasettenne che si rimette in gioco senza nascondimenti o ausili digitali (il segno dell’età nella voce è infatti tangibile), ma perché l’insegnamento che possiamo trarre da “Archangel Hill” è di mettere per una volta da parte le sovrastrutture, di non inseguire per forza suoni apparentemente nuovi, di allontanare la tentazione di privilegiare le contaminazioni e i meticciamenti, andando invece all’essenza della musica, al senso ultimo di una canzone cantata, e non solo letta come un testo di cultura popolare. Che sia questo l’invito che viene dalla Collins ci sembra evidente anche dalle scelte fatte per la scaletta e per l’organico strumentale, un quartetto costituito da Ian Kearey (chitarre, basso, celeste, piano e il famoso dulcimer/banjo che da sempre accompagna Shirley Collins), Pete Cooper (viola e violino), Dave Arthur (banjo), Pip Barnes (chitarra). Molte delle canzoni di “Archangel hill” (suo secondo album dal 2014, quando dopo oltre un
decennio di inattività dovuta a problemi con la voce, ha ripreso a cantare) sono già state da lei interpretate in anni lontani: “Fare Thee well my Dearest Dear” nel 1976, “Lost in a Wood” nel 1967, “Hares on the Mountain” nel 1959 (è stata la prima a inciderla, e la sua versione ha fatto scuola), “The Bonny Labouring Boy”, addirittura nel 1957, per una registrazione fatta da Alan Lomax. A queste, appartenenti alla tradizione inglese, irlandese e, in un caso (“The Captain with the Whiskers”) a quella statunitense, si affiancano tre brani di composizione, che anch’essi non riteniamo scelti a caso: la già nota “Hand and Heart”, qui riproposta in una registrazione del 1988 alla Sidney Opera House e che oltre ad essere un omaggio alla sorella Dolly (che la arrangiò), quasi a rimarcare i cambiamenti nella voce indotti dall’età mantenendone al contempo lo stile interpretativo originale; “High and Away”, il cui testo è del 1959, ma che solo ora è stato musicato; infine la conclusiva “Archangel Hill”, un semi-recitato che si muove su un tappeto sonoro elettrico e rarefatto, di grande suggestione, che sembra aprire a nuovi sentieri nella ricerca musicale di Shirley Collins, e smentire le voci che questo album sia una sorta di testamento di colei che a nostro parere non va definita come la mamma o la nonna, ma come la Regina del folk, che attraverso la musica e il canto si rivolge ai suoi appassionato ascoltatori. Definizione la nostra forse eccessiva, almeno fino a quando non si abbia modo di vedere la foto che accompagna il lancio del disco, in cui Shirley Collins, seduta in una stanza elegante e semplice, ha un atteggiamento e un sorriso bonariamente regali, che ricordano una sovrana da poco scomparsa.
Marco G. La Viola
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