Lucinda Williams – Stories from a Rock’n’Roll Heart (Highway 20 Records, 2023)

Non si poteva trovare un titolo migliore di “Stories from a rock’n’roll heart”, sotto al quale raccogliere dieci canzoni secche, dure e graffiate. E, allo stesso tempo, piene di una grazia così spontanea e semplice, vera. Lucinda Williams non poteva essere più chiara di così, perché le sue idee le esprime con l’immediatezza della cantante navigata con chitarra in mano: non c’è da girarci intorno, si va diritti sulla strada di quegli strumenti irrinunciabili perché fondamentali, così concreti che sembrano una firma solcata per sempre, un suono unico abbracciato indissolubilmente alla sua matrice, al suo segno originale (“Jukebox”). Dieci canzoni ferme nel tempo, ma proiettate – per loro stessa natura – in una dimensione (direi) onirica. Come onirica (fantastica) deve essere quell’amalgama di pensieri e suoni scomposti, quella nervatura impastata e informe che la Williams pian paino elabora nel flusso vorticoso della sua scrittura, del suo linguaggio. Una dimensione che si compone delle immagini arcaiche del rock’n’roll e che, da qui, inizia il suo processo di asciugatura, di essiccamento, fino a trasformarsi in evidenza, in una struttura che calza nella sola forma espressiva che le è concessa: la canzone brutale, forte. Il racconto avvelenato e curativo: un balsamo che sa di terra e di città (“Hum’s liquor”). Non è un caso se Lucinda ci avvolge nella sua scena senza compromessi, senza chiederci né indicarci come fare. Non ha il tempo né la voglia di farlo – in fondo non ne ha mai avuti. Tutt’al più ci invita a verificare – obtorto collo – il nostro grado di comprensione e il livello della nostra capacità di penetrazione. Il passo verso lo spazio comune dell’ascolto dobbiamo farlo noi. Lei ci fornisce – se vogliamo vederla così – qualche elemento qua e là. Ma, se affrontiamo la questione con la giusta attenzione, ci potrebbe anche bastare (“Let’s get the band back together”). Bastare a stupirci (e non è poco) di come quest’artista straordinaria – originaria della Louisiana e al suo quindicesimo album – sia capace di elaborare quell’assetto indistruttibile e di articolarlo in una forma piacevolissima. In seno alla quale gli elementi che più ci rapiscono sono quelli che ne costituiscono i tratti più vitali: le chitarre e la voce, l’essenza dell’epica americana – con le sue mappe, le sue vie musicali, il suo impianto toponomastico – e quella timbrica da viandante, che riconduce all’immagine di un corpo che dorme all’aperto, che vive a metà strada – e con lo stesso agio – tra il deserto e la metropoli (“This is not my town”). Eccola allora l’epica dell’album: il coraggio di fronteggiare, di esibire la propria natura, di dare il proprio corpo, di protendere verso l’esterno (“Last call for the truth”). Appunto, di esternare e non fagocitare: introiettare e restituire, incorporare e riflettere, espandere, (addirittura) rivelare (“Where the song will find me”). E così dalla dimensione epica si giunge a quella mistica. Perché c’è di mezzo il viaggio-sogno, il processo-vibrazione: il suono che si rinnova attraverso sé stesso. Insomma, mistico è il motivo che spinge Lucinda a cantare la sua canzone e a scarnificare la sua lingua, compiendo un percorso vorticoso e ciclico, che si elabora e infittisce nelle maglie della reiterazione (“Never gonna fade away”). In questa direzione ci porta anche la storia recente della Williams, che con questo album resuscita dall’oblio di un ictus che l’ha colpita pochi anni fa. Forse anche per questo si ha la sensazione che ruoti tutto attorno alla voce, dentro una lirica inconfondibile. Ma, allo stesso tempo, sembra anche di vedere un fatto chiaro, un manifesto di risolutezza, che imprime uno spessore inedito sia alla composizione che all’esecuzione (“Stolen moments”). In questo quadro, ogni elemento trova il giusto spazio, in maniera elegantemente equilibrata: Bruce Springsteen e sua moglie Patty Scialfa – meraviglie su meraviglie – nei due brani più densi dell’album (la title track “Rock’n’Roll Heart” e “New York Comeback” – tanto per ritornare alla mappatura), i musicisti sodali Tommy Stinson e Jesse Malin, e i cameo di Buddy Miller, Angel Olsen, Margo Price, Jeremy Ivey. 


Daniele Cestellini

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