Yarákä – Curannera (Zero Nove Nove, 2023)

Il secondo brano è “Maletímbe”, già contenuto nel primo disco…
Virginia Pavone - Sì, “Maletímbe” è praticamente diventato ormai il nostro tormentone da diversi anni. E il nostro evergreen.
Simone Carrino - È una versione ultima di “Maletímbe” rispetto alle precedenti, molto ridotta al minimale e quindi sostanzialmente si fonda su un berimbao e sul tamburello. Come struttura armonica però alla fine il motivo composto da Gianni è un qualcosa che diventa estremamente ipnotico. È un brano che funziona.
Ci è sembrato doveroso reinserirlo anche, come dire, come sorta di buono auspicio per il nuovo percorso intrapreso da questa formazione. È un legame molto affettivo.
Gianni Sciambarruto - È stato l’inizio di questo passaggio, è stato quasi un esperimento da parte mia: cosa faccio se unisco il berimbao con un ritmo che ricorda la tarantella? In realtà, è stato ispirato anche a un ritmo di barravento, che come ritmo in tre richiama un po’ la tarantella. Abbiamo provato e ci è piaciuto, insomma, abbiamo avuto anche feedback positivi e continuiamo su questa strada.

“Canto all’alìe” è nel segno dell’incontro tra i Sud… dalla Basilicata verso l’Africa.
Simone Carrino - È un’aria che è ancora utilizzata nella provincia, nella parte ionica della Basilicata. È praticamente un arrangiamento che segue un ritmo strutturato sul tamburello in maniera del tutto improvvisata. Il canto di per sé per me è molto importante, perché viene dal mio paese d’origine che è Carosino, in provincia di Taranto, e insieme a delle strofe che poi sono state raccolte a San Giorgio negli anni ‘40-’50 del secolo scorso in una spedizione di Alfredo Magliorano. Lo sento in qualche modo molto personale, proprio per la funzione del brano in sé. Alla fine ogni canto ha una funzione. I canti che venivano eseguiti durante i lavori in campagna spesso erano utilizzati per comunicare. Quindi il “Canto all’Alìe” non fa differenza e la cosa più importante, secondo me, sono le forti espressioni, anche violente in certi sensi, sia d’amore che di odio. Nell’album si sentono sono quattro strofe, ma. di recente ne ho raccolte altre, ancora più aggressive come modo di fare. Per me è una sorta di rito un po’ alla rabbia. 
Mi piace per l’aggressività e lo proposi a loro nell’entrare in formazione. Poi si è costruito tutto l’arrangiamento per come è, anche grazie a Gianni e al suo buttarsi in maniera impavida…
Gianni Sciambarruto - C’era questo segno da parte sua, già era costruito il brano nello specifico, già c’era la struttura, già c’era l’idea di come doveva essere, però poi abbiamo lavorato insieme a Virginia per dare una spinta in più, un boost in più. Ed è stato molto interessante, perché ci ha anche suggerito un collegamento con quella che è la parte più orientale ed è un bel legame che sicuramente continueremo a esplorare. 

Con “Tuppe Tuppe”, in cui entra un quartetto d’archi, esplorate un aspetto della tradizione religiosa urbana ma, al contempo, aggiungete un tocco di eleganza.
Virginia Pavone - Questo quartetto d’archi l’abbiamo voluto con tutte le forze, perché quando abbiamo iniziato a lavorare su questa idea del “Tuppe Tuppe” proprio per radicarci tanto nella parte più viscerale delle tradizioni tarantine. Nel disco abbiamo voluto darle un tocco musicale molto più emozionale, per cui parlando tra di noi abbiamo pensato di mettere il quartetto d’archi con dei suoni che richiamano poi quelli che si sentono da parte della banda. Quindi ci abbiamo messo la troccola, che viene suonata dai perdoni durante la processione, e la grancassa. Insomma, andiamo ad usare delle sfumature nel disco che ovviamente nel live non riportiamo, perché preferiamo avere sempre un compromesso.
Gianni Sciambarruto - Dovevamo scendere a un compromesso: nel disco abbiamo deciso di stravolgere l’organico, con ospiti e aggiungendo altro ancora. Poi abbiamo pensato di farlo soltanto su un brano, quello più particolare, quello più espressivo, dove può emergere di più la vocalità di Virginia. Abbiamo deciso e costruito questo arrangiamento cercando di “nobilitare”, per quanto possa essere un termine sbagliato, quello che è il contesto della banda. Con tutto il rispetto, abbiamo deciso di renderlo un po’ più elegante da quel punto di vista e metterci un quartetto d’archi a sostegno della bella interpretazione che si fa del brano.
Virginia Pavone - Dal punto di vista di quelle che sono le tradizioni che ancora vengono vissute, è un momento molto partecipativo all’evento da parte chi lo sente, di chi crede tantissimo. Il momento in cui esce la Madonna da San Domenico e fa tutto il tragitto c’è tutta la storia dietro che è emozionale ed è
quindi la parte più bella in realtà del rito, che viene proprio vissuto in maniera così intensa… quasi non so descriverlo perché è proprio il momento quello più importante, dove esce il dolore di una madre che sa che sta per perdere suo figlio. La laude a Cristo morto è il tema più famoso che suona la banda.
Gianni Sciambarruto - E poi storicamente tra i vicoli della città vecchia si è costruito un testo che è diventato poi una vera e propria canzone.

“Affascene” ci porta al di là del mare…
Virginia Pavone - “Affàscene” è proprio quel punto del disco in cui abbiamo voluto mettere la contaminazione della cultura sciamanica, creando anche un po’ quel parallelismo tra curannera e curandera. Parla ovviamente di un rito che a volte si viene a sapere che ancora si pratica, che è quello dello sfascino, che ancora viene fatto, in segreto. Sono praticamente delle formule magiche che in realtà sono segretissime, quindi chi lo fa non lo racconta, cioè non narra quelle che sono le frasi tipiche che si dovrebbero dire. Noi le abbiamo trovate da un libro di raccolta quelle più conosciute e abbiamo voluto dare appunto questo tocco legato molto alla parte percussiva e quindi al senso di un momento di magia in cui viene tolto il malocchio da una persona  attraverso delle pratiche che sono poi quella dell’olio nell’acqua o il metallo che viene spezzato, le forbici in particolar modo, perché poi abbiamo visto e studiato che dipendeva anche dal fatto che si trattava di un pratica sul femminile, su una persona, una donna o un uomo, con delle differenze della pratica rituale. Abbiamo voluto creare questo momento, che più che una canzone a me piace definirla come un momento rituale, magico, sul palco. Lì abbiamo creato questo connubio tra il sacro e il profano facendo sempre quel 
riferimento di cui parlava Gianni, delle citazioni al “Dies irae” e alle “Cantigas di santa Maria”.

I due temi conclusivi ci portano in Sicilia: “Draunara” e il classico “Signuruzzu Chiuviti”, reso famoso anche da Rosa Balestreri, in cui la Sicilia dialoga con la Romania…
Gianni Sciambarruto - Partiamo da “Draunara”. In realtà sì, è un po’ più semplice trovare materiale legato alla vitalità, agli elementi della natura, per quanto riguarda la Sicilia: è una terra particolarmente legata a quest’aspetto e mi ha affascinato questo rituale perfettamente in linea con quello che volevamo fare. Partendo sempre dal testo che ci ha suggerito un po’ il ritmo, volevamo dare una nota moderna, un po’ più aggressiva, giusto per spezzare, e anche questo a quanto pare dal vivo funziona, è accattivante.
Virginia Pavone - Funziona, sempre perché a Simone piace quell’aspetto di rabbia.
Simone Carrino - Sì, io sono il tamarro del trio. Del testo di “Signuruzzu Chiuviti Chiuviti” si sa che è la preghiera. Di quello che è il rito dietro già si sa moltissimo; la cosa curiosa che abbiamo scoperto strada facendo, in realtà, è stata quella della paparuda, il canto rituale, al quale abbiamo aggiunto una strofa vera e propria dell’inno alla paparuda, che è praticamente la dea della fertilità secondo il culto pagano rumeno. La cosa curiosa per la quale poi alla fine c’è sempre un filo, ovunque, quando si parla di meridione c’è sempre un filo che ti porta da quale parte, seguendo questo filo abbiamo scoperto che i riti della paparuda vengono celebrati negli stessi giorni in cui in Sicilia si festeggiano i riti della Madonna dell’Itria, che sarebbero poi quelli da cui escono canti come “Signuruzzu Chiuviti Chiuviti” o altre invocazioni contro la siccità. Quindi c’è questa sorta di collegamento diretto. E poi l’ultimo dato, c’è stato questa sorta di tributo che è uscito in maniera molto spontanea alla frischettara calabrese.
Gianni Sciambarruto - Però, lo strumento è un flauto armonico, che è sempre legato al mondo dei Balcani, dei pastori balcanici. 

Nella vostra musica non ci sono riferimenti espliciti alla pizzica…
Gianni Sciambarruto -
 Però ci sono citazioni. Abbiamo voluto sempre citare e sfruttare questo ritmo ossessivo che crea quindi concitazione, quindi trance, può indurre la trance, ma senza esplicitamente fare riferimento a quella cosa là, proprio per svincolarci da quell’immagine. 
Simone Carrino - Siamo musicisti che sfruttano gli strumenti in maniera totalmente diversa da quella che è la funzione della musica tradizionale, quindi viene immediata sì la citazione, ma come approccio musicale ci viene più naturale fare tutto ciò che si sente all’interno dell’album, cioè quello è quello che ci viene naturale: ad un certo punto ogni strumento cresce, evolve. Io parlo magari dal canto mio che suono lo strumento in qualche modo principe delle musiche popolari, le tradizioni alla fine diventano tradizioni dal momento in cui c’è una sorta di continuità e di evoluzione nelle cose, quindi lo stesso anche in questo discorso: da noi esiste la pizzica, però effettivamente esistono tanti modi per continuare a far vivere una tradizione, che può partire anche dal proprio vissuto e dal proprio modo di approcciare al mondo. 
Virginia Pavone - Ci è sembrato un processo naturale, legato anche al discorso di far uscire quella che è la nostra personalità, proprio per evitare di rimanere ancora ancorati e vincolati ad un solo stile – lasciatemi passare questa espressione – proprio perché eravamo su un percorso legato al creare la nostra identità l’abbiamo fatto attraverso quello che appunto al di là degli studi, crearlo attraverso quello che è il nostro modo di voler portare fuori quello che ciascuno di noi ha dentro, che è legato sia a delle nostre tradizioni nostre personali, ma anche a una nuova concezione di lavorare sulla musica, proprio perché
sperimentiamo. Ci è sembrato il modo migliore, ecco perché il discorso della citazione, il riferimento ma senza entrarci sempre troppo, perché vuoi o non vuoi è un processo che ti instrada troppo in una direzione specifica.

Questa idea musicale come si trasferisce dal vivo? In quale dimensione si ritrova meglio?
Virginia Pavone - Beh, a me basta guardare Simone, appena Simone inizia a mettere le mani sul tamburello…
Gianni Sciambarruto - Lavoriamo e sicuramente continueremo su questa linea, nel nostro piccolo, quello che poi la produzione musicale dietro le quinte, dietro al palco, per quanto possibile trasposta per quella che è dal vivo. Poi, se questa è una cosa positiva nei nostri confronti, traspare la nostra genuina energia, la nostra passione per fare buona musica…
Simone Carrino - L’album è stato anche costruito in virtù di una messa in scena dal vivo.
Gianni Sciambarruto - Anche con strumenti relativamente semplici senza grandi costruzioni.
Simone Carrino - Nel senso, doveva suonare esattamente così come deve suonare dal live, ma proprio per una nostra scelta di fedeltà tra la riproduzione in un file audio e la riproduzione in un concerto, quindi portare quanto più possibile l’album dal vivo.

Riscontri della stampa, anche internazionali, iniziano ad arrivare…
Virginia Pavone - È stato un piacere. In realtà io, so che sto per dire una cosa un po’ strana, però quasi non ci credo, perché se penso a quando tutto è cominciato che avevamo un’idea, avevamo voglia di fare, però mai avremmo potuto immaginare che nel tempo sarebbero arrivati questi bei riscontri e quindi poter portare la nostra musica, la nostra identità, fuori. Da un mio punto di vista personale, voglio dire che è importante, proprio la tarantina doc, è un grande onore e una grande soddisfazione poter portare il dialetto tarantino, che è un dialetto che nella world music non si sente, e portare una parte virtuosa della mia città per farla scoprire a chi non la conosce. Per noi già è una grande soddisfazione, oltre a tutto ciò che poi abbiamo vissuto e che viviamo insieme, ed io sono molto felice e anche soddisfatta, perché siamo tre persone che lavorano insieme, si rispettano molto, e quindi i percorsi si fanno perché si ha voglia di farli insieme, senza troppe pretese ma con tanta passione. 
Gianni Sciambarruto - Adesso, l’intenzione è quella: cercare di espandersi, oltre i confini nazionali. Abbiamo una tournée abbastanza ricca anche ad ottobre tra Spagna, Francia, e sperando che la nostra visione del progetto possa accattivare quei pubblici.


Ciro De Rosa

Yarákä – Curannera (Zero Nove Nove, 2023)
In America Latina la figura della curandera rappresenta la guaritrice, colei che, con la sua sapienza, attraverso i rituali tradizionali, la conoscenza dei rimedi a base di erbe, i suoi poteri personali, riporta e mantiene la salute ed il benessere nelle persone e nella comunità. “Curannera” è il nuovo lavoro della band tarantina Yarákä che, ispirandosi alle tradizioni della propria terra e di tutto il Sud d’Italia, vuole spostare i confini musicali proponendo innesti di musiche di altra provenienza, in particolare “sciamaniche”, del Mediterraneo e dell’Est europeo. Al centro di questo progetto è la figura femminile come guaritrice ed anche come donna che dona la vita e, ancora, come figura sacra, attraverso la riproposizione di brani ispirati a Sant’Anna e alla stessa Madonna. Questi archetipi femminili costituiscono il trait d’union che riesce ad accomunare i rituali diversi nelle culture di tutto il mondo, a cavallo tra sacro e profano. Gli Yarákä, formazione nata nel 2015 che ha al suo attivo la pubblicazione del CD “Invocaçao” nel 2018, sono Gianni Sciambarruto (berimbao, chitarra, saz, doromb, voce), Virginia Pavone (voce, flauto armonico, tamburo sciamanico), Simone Carrino (tamburello, riq, daf, kanjira, troccola, voce). L’energia del trio è evidente e palpabile, a partire dalla potente ed espressiva voce di Virginia Pavone, per continuare con le percussioni che in tutti i brani creano un tappeto ritmico rutilante, ossessivo ed ipnotico e con il berimbau, strumento musicale a corda percossa di origine africana, diffusosi in Brasile in seguito all'importazione degli schiavi africani durante il colonialismo, che oggi è parte della tradizione musicale. Dunque le voci, tamburi a cornice, tamburo sciamanico, berimbau sono gli elementi portanti del loro stile, a cui si aggiungono in alcuni brani anche la chitarra dal suono morbido, il flauto in versione prog, un vibrante violino ed altre percussioni. Otto brani ad alta intensità costituiscono la line-up: si decolla senza esitazioni con “A Sand’Ánne”, invocazione a Sant’Anna protettrice delle partorienti, buon auspicio per una gravidanza senza complicazioni. È un brano in dialetto tarantino musicato traendo ispirazione dalle sonorità galiziane con l’intervento della pandereta, molto simile al tamburello. Il caratteristico ritmo puntato e le melodie galiziane ben si legano a quelle della tradizione pugliese con la suggestione di un legame tra le due culture. Si apre con un tuono “Maletìmbe” ispirata ad un’invocazione a San Giovanni per chiedere al santo, all’arrivo di un temporale, di non generare danni. Nel brano anche Marco La Corte a flauto e voce, Mirko Sciambarruto al violoncello, Antonio Oliveti alle percussioni etniche. La voce della Pavoni con i controcanti di Sciambarruto e Carrino risulta molto incisiva nell’incalzante finale. Seguono i due tradizionali, dalla Basilicata il classico “Fronni d’alia” e dalla Calabria “Canto all’alie”, entrambi i brani diffusi tra i raccoglitori di olive. Il primo, sui matrimoni combinati tra giovani ragazze ed anziani facoltosi, attacca con un bell’arpeggio alla chitarra introducendo la dolce melodia cantata per poi partire con un ritmo serrato scandito dal tamburello. Il secondo narra dei messaggi che si passavano tra loro i lavoranti (d’amore ma anche contro il padrone) e, interpretato dalla voce maschile solista, risulta molto grintoso con sottofondo arabeggiante al saz e tamburello tiratissimo. “Tuppe tuppe (Laude drammatica)” costituisce una peculiarità delle tradizioni tarantine nei riti collegati alla Settimana Santa in cui si racconta  della Madonna che cerca il Cristo morto bussando alle case delle persone. La traccia si avvale dell’intervento di violini che accompagnano e sottolineano la bellissima voce svettante e dolorosa della Pavone. Nella travolgente, vibrante “Affàscene” che richiama i riti tradizionali di sfascinazione per allontanare il malocchio, si alternano ritmi scalmanati propri dello sciamanesimo e litanie delle “masciare” del sud Italia, guidati dall’elemento vocale sicuro ed espressivo della Pavone. “Draunara” eseguita per doromb (equivalente magiaro del marranzano), tamburo, tamburello e voci,  raccoglie un insieme di invocazioni e preghiere per la Cura di Dragu, che in siciliano indica la tromba marina dalla forma di serpente. Ha vinto il premio del concorso “Vedere la musica” a Messina il video della potente «Chiuviti» in cui vengono fuse la tradizione siciliana – dove per scongiurare i periodi di siccità si era soliti recitare rosari come buon auspicio invocando i santi –, e la tradizione della Paparuda in Romania (presente in molti paesi balcanici), un rituale tra paganesimo e misticismo per invocare la pioggia. L’eccellente ritmica del brano a geometria variabile è resa ancor più accattivante grazie a sonorità “altre” in particolare l’intervento del  berimbau. Molto convincenti, anche travolgenti gli arrangiamenti di “Curannera”, apprezzabile il sentimento urgente di ricollegarsi alle grandi questioni del globo terracqueo esplorando l’antico e indissolubile rapporto tra l’uomo e la natura. Yarákä, una parola inventata, tra l’altro è composta dai quattro elementi acqua, aria, fuoco e terra in lingua tupi-guaraní (famiglia linguistica dell’America Latina che, in particolare con la regione amazzonica, rappresenta per la band un esempio in cui l’uomo e la natura convivono in equilibrio armonioso). Anche in tal senso risulta emblematica la figura della curandera che conosce e rispetta le forze della natura.  Yarákä emergono anche grazie alla palpabile voglia di esplorare e sperimentare alla ricerca di un’identità musicale. “Curannera” è un bel disco, curato, ben eseguito, originale, fascinoso, che al primo ascolto rapisce e nei successivi si fa apprezzare per il suo spessore.  


Carla Visca

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