Sembra aver spiegato definitivamente le ali Rhiannon Giddens: ha mollato tutti i pesi – se così si possono chiamare – e si è lanciata nel suo vero orizzonte, composto da una musicalità profonda, semplice e complessa allo stesso tempo, da una vocalità libera e potente, da una scrittura felice, scevra da ogni formalismo. Il suo nuovo album “You’re the one” ha ben poco a che vedere con le sue produzioni più recenti – e, in fondo, anche con quelle passate. Da un lato perché lei si sente, evidentemente, al centro di un flusso che controlla alla perfezione: naturale, potente, leggero e solido. Dall’altro perché – “scorrendo” le dodici canzoni dell’album (una più bella dell’altra) – si ha l’impressione di ascoltare un’artista libera, completata dalle esperienze musicali che si sono succedute in tanti anni di carriera. Prima con i Chocalate Drops, con cui ha firmato una buona manciata di album, non tutti indimenticabili, dal 2005 al 2012. Poi con il supergruppo The New Basement Tapes, con cui pubblica, nel 2015, “Lost in the river: the new basement tapes”. E, infine – dopo lo sbalzo solista di “Tomorrow is my turn” del 2015 (con il quale si aggiudica, nel 2016, una candidatura ai Grammy Awards nella categoria “Miglior album folk”) e “Freedom Highway” (2017) – con le fantastiche Our Native Doughters (di cui attendiamo fiduciosi il seguito del primo album “Songs of our native doughters”, pubblicato con la Smithsonian Folkways nel 2019) e con Francesco Turrisi. Con quest’ultimo
– straordinario polistrumentista e compositore, che qui suona piano, tamburello e accordion – ha pubblicato due album interessanti: “There is no other” (2019) e “They’re calling me home” (2021), grazie al quale la coppia vince (finalmente) il Grammy nel 2022. Dicevo che questo “You’re the one” è diverso, soprattutto perché la Giddens balla da sola. Intendiamoci, gli album passati – specie quelli citati – sono fondamentali per gli amanti del folk contemporaneo, cioè delle forme che assume attraverso la voce (in primo luogo) e la visione di un’artista classe ’77 (ricordiamo – per chiudere un cerchio importante – che The New Basement Tapes comprendeva Elvis Costello, Marcus Mumford, Tylor Goldsmith e Jim James, che l’album “Lost in the river” è stato prodotto da T Bon Burnett per mettere in musica brani “handwritten” da Bob Dylan durante il periodo delle originali “Basement Tapes”). Ma qui siamo su un altro livello. Come dicevo, Rhiannon si è liberata ed è librata, sicura del suo passato e del suo presente, verso uno spazio in buona parte da ridefinire. Per questo nella successione dei brani – che si alternano come in un unico, caldo, capriccio di strumenti acustici, morbidi e suadenti – abbraccia riflessi (inaspettatamente) differenti, che
vanno dal folk-blues al crooning, da un light old jazz a un soul intimo ma irrefrenabile, irriducibile. In questo modo tutto lo spazio più centrale è riservato alla sua voce – spessissimo sorretta da un vecchio piano o dal suo banjo straordinario. Che, in questo caso specifico, significa la sua immagine più iridescente. Lo dimostra il fatto che, ad eccezione del traditional “Good Ol’Cider”, posto in chiusura della scaletta, tutti i brani sono originali. È lei l’autrice, quindi, della sua voce, anche se, in qualche caso, coadiuvata da autori a dir poco straordinari: Dirk Powell (banjoista e violinista, che può vantare collaborazioni, tra gli altri, con Eric Clapton e Racounters), Marcus Mummon, Bhi Bhiman e Keb’ Mo’. La ciliegina sulla torta è – manco a dirlo – la produzione di Jack Splash. Il quale – sapientemente impiantato tra le collaborazioni con Alicia Keys, Valerie June e John Legend – interpreta egregiamente l’epifania creativa della Giddens. Aggiunge, infatti, un’interpretazione ambivalente, guardando alla doppia natura dell’album (natura che, presumiamo, era riflessa anche nella sua forma germinale). Così Spash seleziona i suoni senza edulcorare il carattere degli strumenti (fiati, percussioni, chitarre, viola, banjo, basso , accordion, violino, drum programming). Definendo, innanzitutto, quello spazio di preminenza della voce (di cui si diceva pocanzi). E, al tempo stesso, fondendo e frazionando i timbri (che la Giddens incorpora con estrema naturalezza) con suoni vividi, che lucidano, senza intaccarne la consistenza, gli strati tradizionali delle esecuzioni. Insomma, si tratta di un ottimo album: che (viene da e) guarda molto lontano.
Daniele Cestellini
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