Bob Dylan – Shadow Kingdom (Columbia Records, 2023)

In alcuni passaggi dell’autobiografia “Freewhelin’ Time” Suze Rotolo, la compagna di Bob Dylan nei suoi primi anni newyorkesi, racconta che avvenimenti come la crisi dei missili a Cuba, la guerra in Vietnam, l’assassinio di J.F. Kennedy, furono vissuti da lei, Dylan e dall’intero ambiente culturale e musicale del Greenwich Village con smarrimento, paura e incertezza nel futuro, le stesse sensazioni cioè che 60 anni dopo abbiamo tutti vissuto con il Covid 19. Ed è da questo parallelo che, a nostro avviso, nasce l’idea di Dylan di reinterpretare alcune sue canzoni scritte tra il 1965 e il 1973, anni tumultuosi ed incerti, e di intitolare il tutto “Regno delle Ombre”. Preceduto da un film-concerto di Alma Har’el dallo stesso titolo (e sottotitolato: “The early songs of Bob Dylan”) l’album, ad eccezione di “What was it you wanted”, del 1989 (era in “Oh mercy”), e della strumentale “Sierra’s theme”, è costituto da brani originariamente pubblicati nei dischi che vanno da “Bringing it all back home” a “Planet waves”. Così come la fotografia del film è notturna e ricca di ombre, così la dimensione del suono è intima e scarna: Dylan suona chitarra e armonica, e l’accompagnamento si limita a due chitarre, basso, fisarmonica, con alcuni interventi del mandolino e, in “Forever young”, della dolceola (“Shadow Kingdom” è il primo album di Dylan in cui non sono presenti batteria o percussioni). Grazie a questa essenzialità di suono le canzoni sono rese in una veste sì nuova, ma che mantiene la loro originaria e asciutta bellezza; i testi tornano a splendere in tutta la loro forza, coinvolgendo ed emozionando l’ascoltatore, che viene catturato da un incessante flusso sonoro, ottenuto inserendo alcuni accordi di chitarra a collegare tra loro i pezzi. Il primo brano dell’album è “When I paint my masterpiece” e ne esemplifica lo stile, con la voce di Dylan spessa e profonda a marcare il tempo passato. Segue il rock-blues, cantato sottovoce e quasi trattenuto, di “Most likely you go your way (and I'll go mine)”. Di grande impatto “Queen Jane approximately”, in cui all’invito sussurrato di Dylan: “Won't you come see me, Queen Jane?” fanno da contrappunto le chitarre. “I’ll be your baby tonight” inizia come un rock lento che poi si fa blues, mentre “Just like Tom Thumb’s blues” ha quel sapore tex-mex con cui tante volte Dylan ha insaporito le proprie canzoni. A seguire: “Tombstone blues”, raccontata, più che cantata, su pochi accordi distanti e frammentati; “To be alone with you”, dominata da un mandolino suonato sulle note basse; la notturna “What was it you wanted” in cui la voce di Dylan si fa sognante. La versione di “Forever young” è da brividi: l’augurio di rimanere “per sempre giovani” è espresso in maniera intima e personale, e la canzone così suona lontana anni luce da quella magniloquente ascoltabile in “Live at Budokan”. Al blues di “Pledging my time” seguono il country-blues di “The wicked messenger” e “Watching the river flow”, il brano più rock’n roll dell’album, in cui è dato spazio a brevi assoli di chitarra. Ultimo pezzo cantato dell’album la splendida “It’s all over now, Baby Blue” con i programmatici versi finali “Strike another match, go start anew/And it's all over now, Baby Blue”: un finire e ricominciare – in forme sempre nuove – tipico di Dylan. Chiude la strumentale “Sierra’s theme” il cui motivo ricorda “All along the watchtower”. Pur privo di canzoni inedite “Shadow Kingdom” va a tutti gli effetti considerato e ascoltato come una nuova opera di Dylan, non come una rilettura di alcune sue canzoni o nuova puntata della “Bootleg series”. Ultima nota: come ormai usuale, anche nel caso di “Shadow Kingdom” nei crediti non compaiono i musicisti che accompagnano Dylan (nel film sono addirittura mascherati). Voci accreditate danno però per certa la presenza di veterani come T-Bone Burnett e Don Was, insieme a musicisti d’avanguardia come Shahzad Ismaily, bassista della esoterica band Secret Chiefs 3. 


Marco G. La Viola

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