Tinariwen – Amatssou (Wedge, 2023)

Quando si tratta di registrare un album sono molti i gruppi musicali a comportarsi da nomadi. I Tinariwen, sarebbero volentieri rimasti fedeli, invece, alle colline intorno a Tessalit, nel nord-est del Mali. A Tessalit, nel 2009, realizzarono “Imidiwan”; per Ibrahim Ag Alhabib, questo è “il luogo in cui la chitarra produce i suoni che voglio”. Ma da allora, le condizioni politico-militari del Mali non l’hanno più permesso. E così “Tassili” li ha visti registrare per tre settimane con Ian Brennan nel deserto roccioso vicino a Djanet, cittadina sul margine meridionale dell'altopiano del Tassili n'Ajjer, nella parte meridionale-orientale dell’Algeria. Per "Emmaar" (2014) e "Elwan" (2017) hanno scelto un altro deserto, quello del Mojave a Joshua Tree. Con “Amadjar” (2019) hanno potuto riavvicinarsi a casa, registrando fra Marocco meridionale e la capitale mauritana Nouakchott scelta anche per questo nono album, insieme al Tassili n'Ajjer algerino dove hanno potuto prendere a prestito l'attrezzatura degli Imarhan che a Tamanrasset hanno dato vita a un loro studio di registrazione non lontano da pitture rupestri di 12.000 anni fa. Alle voci e alle chitarre ritroviamo Ibrahim Ag Alhabib, Abdallah Ag Alhousseyni, Hassan Ag Touhami e Elaga Ag Hamid, con Eyadou Ag Leche al basso e Said Ag Ayad alle percussioni. A loro si sono uniti Hicham Bouhasse di Imarhan, con chitarre e percussioni, il liuto di Miloudi Mad Chaghli e le voci di Machar Aicha e Machar Fatimata con tinde e imzad (il violino a una corda cui è dedicata la quarta traccia/interludio). Da Parigi ha contribuito Amar Chaoui alle percussioni e da Nashville Wes Corbett, al banjo nel brano di apertura ("Kek Algham"), Fats Kaplin, banjo, steel guitar e violino in quattro brani, e da Los Angeles Daniel Lanois con steel guitar e piano in due brani, ma soprattutto attivo come produttore, il sarto che ha saputo tenere insieme questi diversi contributi. Intervistato da OkayAfrica, Abdallah Ag Alhousseyni ha ricordato come il banjo sia uno strumento utilizzato in Algeria e la sua passione per le chitarre della musica country statunitense, rivendicando: “La nostra è musica country: quando abbiamo iniziato veniva suonata dai pastori intorno ai falò, narrando le storie dei tempi andati. Sentiamo che la nostra musica è più legata alla natura e al nomadismo, come i cowboy di un tempo nel West. Il deserto è il posto migliore per noi per fare musica, per registrarla, perché è così che inizia. Non ci sentiamo a nostro agio in uno studio. Abbiamo fatto alcune sessioni all’aperto, in mezzo alle montagne, o nella tenda che abbiamo montato. Nel deserto il tempo non è lo stesso, il silenzio è importante, l'eco della montagna, il suono della sabbia sotto i piedi, tutto questo è importante per il nostro processo creativo. Usiamo il riverbero naturale della montagna intorno a noi per le chitarre e i battiti delle mani”. I contributi compositivi vengono da Abdallah, Hassan, Eyadou e Ibrahim che ha scelto di vivere fuori dai centri abitati, senza connessione telefonica, mentre gli altri abitano a Tessalit, Kidal o vicino al confine con l'Algeria. Ritrovarsi per condividere e incidere i nuovi brani è anche un modo per riannodare la storia comune. I dodici nuovi brani mostrano questa riuscita e rigenerata capacità di tessere un’unica trama, sempre tonica e corale, lasciando ugualmente spazio alle diverse voci e narrazioni. Il messaggio politico è sempre in primo piano, magari attraversato dai colori psichedelici del ventaglio di chitarre in “Arajghiyine”, incoraggiando la resistenza a qualsiasi leader politico che tradisca la propria terra, mentre in "Jayche Atarak" il messaggio è per i “nemici” del Mali cui è destinata l’ira memore di chi è stato martirizzato. Ma c’è spazio anche per le chiamate e le risposte corali che coinvolgono le voci a cappella sia maschili, come in “Anemouhagh” sia femminili: a loro è affidata l’ipnotica chiusura vocale e percussiva di “Tinde”. 


Alessio Surian

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