Alessia Luongo – Largo di Castello (Radici Music, 2022)

Si chiamava Largo di Castello, è l’attuale Piazza Municipio, porta di Napoli per chi vi approda dal mare. Nei secoli questo luogo ha cambiato facies, nome e disposizione, ma si può immaginare fosse un “crocevia di classi” – come ricorda Roberto De Simone nell’introduzione a questo album – “abitato da classi nobili e classi popolari”, dove andavano in scena “arti che facevano da comunione per tutti e due mondi”. Ciò ben prima che nel 1740 fosse costruito il Teatro San Carlino, che divenne la sede della commedia dell’arte partenopea e delle “pulcinellate”. Ha delle belle implicazioni, questo disco ispirato e “vissuto” dall’interprete Alessia Luongo. Si intitola “Largo di Castello” ed è il debutto della poco più che trentenne artista, strumentista e teatrante, studiosa di musica barocca. Nativa di Torre le Nocelle, nell’avellinese, ma di residenza romana, Luongo incontra la chitarra battente, rimanendone conquistata. Si diploma e specializza all’Accademia di Teatro Antropologico a Roma, studia liuto rinascimentale, tiorba e chitarra barocca al Conservatorio di Santa Cecilia, ma al contempo coltiva il suo interesse per lo strumento popolare. Pubblicato per Radici Music Records, il lavoro porta come sottotitolo “balli e canti su colascione e chitarra battente alla maniera antica” e si prefigge di costruire un affresco della vita musicale della piazza nella Napoli del XVII e XVIII secolo. In copertina un’immagine dell’illustratore, scenografo e pittore Gennaro Vallifuoco, che raffigura Largo di Castello dalla prospettiva del mare, riprendendo il modello della celebre Tavola Strozzi collocata al Museo di San Martino a Napoli. Con Manuel Pernazza (una vita dedicata alla maschera di Pulcinella di cui è stato insignito del titolo di ambasciatore ufficiale dal museo di Acerra), suo compagno d'arte e di vita con cui ha fondato la compagnia Pulcinellarte, Luongo propone spettacoli che si muovono tra opera buffa e musica della commedia dell’arte. L’incontro con il compositore Roberto De Simone è stato un centrale per lo sviluppo del disco, perché il Maestro napoletano, che definisce “coraggioso” l’impegno della Luongo, non ha fatto mancare i suoi auspici allo studio attento dell’artista, che si presenta pure come una sfida, perché si muove tra ricerca e immaginazione nel voler recuperare la figura del commediante e musico della Commedia dell’Arte. In questo suo convincente esordio discografico, Luongo suona strumenti in auge nella Napoli del Seicento e del Settecento: colascione, chitarra battente e chitarrino battente, e si propone di esibirsi alla maniera antica dei commedianti di suonare e cantare. Dice: “Mi ispiro all’iconografia che è inscindibile nella performance. Il pubblico deve avere la percezione di essere in quella piazza, in quel tempo per ascoltare una ‘commediante’ che arriva e racconta storie, con strumenti antichi. Il fil rouge del lavoro è propria Piazza di Castello, che era la piazza dei commedianti dell’arte nelle iconografie di Jacques Callot. Sempre in quella piazza verrà costruito il Teatro San Carlino, poi smantellato a fine Ottocento. Mi sono detta: ‘Cominciamo da qua perché qui è casa mia’…”. Dal vivo Luongo si presenta in più versioni performative: “in una, per diffondere queste musiche sono accompagnata dalla maschera in duetti, pantomime e recitazione che sono appoggiati sulla musica, in un’altra mi vesto da commediante dell’arte per mostrare come con la maschera e lo strumento si cantava e suonava, lasciando al pubblico l’esperienza di aver vissuto in quei quadri, come in un viaggio nel tempo”. Di fronte alla circolazione di queste forme artistiche attraverso gli strati sociali, come riscostruire e interpretare sul piano esecutivo quelle musiche? “Bisogna mettere in conto la ricerca dei suoni della tradizione seguendo cantori di tradizione orale fin quando è possibile e poi arrivare più indietro attraverso lo studio della musica barocca, lavorare sugli andamenti, le ballate, tutte le cadenze della musica barocca che sono necessarie perché ti avvicinano al suono della piazza, a come potesse suonare effettivamente quel dipinto: quell’uomo in piazza come suonava quella chitarra battente? Si cerca di fare un lavoro sulle cadenze. Per esempio, come poteva essere l’impostazione canora? Un po’ urlato? Un po’ spontaneo? Sicuramente interpretato in modo che la gente si girasse ascoltando il cantato. Anche la chitarra battente è volutamente usata per differenziarla dalla chitarra barocca ma anche mischiandola, nel senso che ci sono degli andamenti che ho voluto riprendere da autori come Gaspar Sanz (1640-1710) che era venuto a Napoli e possibilmente aveva ascoltato una tarantella e poi l’abbia trascritta. C’è anche Athanasius Kircher con il suo discorso su come l’arte magnetica governi il mondo e con il suo trattato sulla tarantella. La chitarra battente ha i suoi limiti e la sua funzionalità, è limitata nel senso più bello del termine perché è uno strumento ipnotico. Nel disco l’ho usata in maniera percussiva, in maniera tediante, in modo da creare lo stordimento. Come dice il Maestro De Simone: ‘Se non sei pronto ad ascoltare questo tipo di musica non lo ascoltare’. È stato un martirio registrare questo disco perché lo strumento si stona con poco, si scorda facilmente: basta colpire più forte o leggermente meno… Ma questa è l’esperienza dello stare a contatto con il legno vivo e così avveniva anche nel barocco”. Luongo suona una chitarra battente modello De Bonis, la famiglia di costruttori che riprende le caratteristiche organologiche dello strumento secondo il modello antico; ancora più pregiato il chitarrino battente, opera di Costantino De Bonis, mentre il colascione alla napoletana è stato realizzato da Knud Sindt. “La chitarra barocca era la cugina colta della battente popolare che era usata come accompagnamento al canto e alla danza, mentre la barocca ha sviluppato tecniche contrappuntistiche molto complicate ed elevate che vanno contestualizzate nella musica barocca colta. Nel programma la musicista ho inserito undici brani che rappresentavano i suoi percorsi di ricerca: “La mia idea è di recuperare l’origine e la natura di queste strofe, dove vince l’immaginario fantastico del popolo di una volta e dove si riconosce come la corte ruba dal popolo, in quello che è un passaggio di proprietà”, racconta ancora Alessia che ha inserito delle strofe di Leonardo Vinci (1690-1730) nella tarantella “Vurria Addeventare”. La chitarra battente è alternata al chitarrino battente accordato con ottave in più per conferire una sonorità più antica (“nel disco sono registrate a 400 Hz, dal vivo a 415 Hz”, racconta l’artista, nda). La seconda traccia, “Russo Melillo”, proviene dallo studio di un canovaccio dell’attore e drammaturgo, tra i più famosi interpreti della maschera pulcinellesca Antonio Petito (1822-1876), “Nu munaciello dint’ ‘a casa ‘e Pullecenella”, in cui si accenna strofe legate a un rito benefico. La casualità vuole che durante un carnevale a Paternopoli (AV), la musicista abbia ascoltato le stesse strofe che sono arrangiate per calascione, il terzo strumento da lei usato in questo disco, che prevede un’accordatura più aperta possibile per poterci cantare e suonare più liberamente. Nelle note che accompagnano il suo debutto Luongo fa notare che esistono varianti in area vesuviana che con gli anni sono divenute delle tammurriate. Sempre restando in area avellinese c’è “Trapolinella”, un canto di Montemarano, rielaborato sul piano ritmico, tenendo forte l’idea di ricondurlo indietro nel tempo, svincolandolo dalla natura ottocentesca e incrociandolo con le tarantelle di Sanz. Stessa ipotesi si realizza nel trattamento di “Cicerenella”, di cui si recupera quella fisionomia esorcizzante e teatralizzata del passato: “Le strofe sono un ricordo, una memoria a ciò che questa donna simbolica da viva aveva. Proprio per unire il sacro e il profano, molte strofe sono simbolismi sessuali”, chiosa ancora Alessia. Oltre ai canti ci sono alcuni motivi strumentali, a partire dall’improvvisazione “Alla gallesca”, una passata su chitarra battente, che come nelle successive “Duello a polvere”, dall’andamento di passacalla su chitarra battente in minore, sviluppata in maniera fortemente percussiva, e “Calascionata di Cuccuruccù”, che riprende l’architettura del basso continuo con improvvisazione sul tema che riguarda un personaggio dei Balli di Sfessania raffigurati da Callot. Non può mancare la villanella a ballo “Li ‘ffigliole”, una esecuzione di notevole qualità, nella quale sull’andamento della Spagnoletta è stata aggiunta un’introduzione con una poesia legata al tempo e alla vecchiaia della grande commediante Isabella Andreini (1562-1604). Invece, “Oi nenna nenna” è una serenata legata al mare, un’espressione che si ritrova in tante iconografie come pure in rappresentazioni teatrali. “Canto di devozione”, ossia “Madonna de la grazia”, è un altro classico diffuso nel repertorio revivalistico, di cui l’artista dice: Mi sono resa conto che mancava la parte religiosa che è imprescindibile dal popolo. La devozione a Napoli è come fuoco che arde, interpretata in maniera grottesca, quasi pagana: è l’anima di Napoli. Per me, è simboleggiata dalla chiesa di Santa Maria di Purgatorio ad Arco, con il cimitero ipogeo e la devozione pagana verso i teschi sopra la chiesa barocca e sofisticata. Il finale ci porta in un certo senso in piazza, le trame di “Musica Sola Mei Superest Medicina Veneni” sono come una macchina del tempo; siamo sul piccolo palco del Teatro San Carlino, dove Luongo immagina l’ultima grande scena della compagnia di attori che saluta il pubblico. Si fondono procedure canore ispirate all’opera buffa e forme coreutico-musicali rituali, con una ripresa di strofe di tradizione recuperate dalle storiche ricerche di De Simone in Germania, poggiate su un ritmo di tarantella, che si snoda dall’antidoto alla parte danzante. Nel finale del brano si ascolta “Stu pettu”, un’ottava siciliana che riprende i materiali trascritti da Kircher, a cui in un certo senso si rende omaggio, immaginando, chiosa ancora Luongo, “una persona che è in piazza abbia riconosciuto il siciliano”. Mentre l’artista sta già lavorando al seguito con un lavoro previsto per il finale del 2023, con “Largo di Castello” assaporiamo l’arte di questa audace e appassionata menestrella. 


Ciro De Rosa

Posta un commento

Nuova Vecchia