Motus Laevus – Sifr (Felmay, 2023)

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Nella polisemia del loro nome è racchiusa la natura girovaga di questa singolare triangolazione sonora composta dal fiatista genovese Edmondo Romano (sax soprano, clarinetto, chalumeau, furulya, fluier), dalla slovena Tina Omerzo (voce, pianoforte e tastiere), da tempo di residenza ligure, e da Luca Falomi (chitarra acustica, classica, elettrica, 12 corde, oud), ormai acclarato chitarrista di rango, pure lui aduso ad attraversare le geografie sonore. In più collaborano come ospiti Max Trabucco (batteria, percussioni) e Alessandro Tuchet (contrabbasso). Sembra consuetudine per i Motus Laevus giocare sulla pluralità semantica pure nella scelta dei titoli dei loro album. Per questo secondo lavoro il trio ha scelto “Sifr”, parola araba per “zero” o “vuoto”. L’assonanza condusse i latini a tradurla in “Zephirum” (Zefiro), figura mitologica greca, personificazione del vento di ponente che spira lieve. Pure, originata dallo stesso lemma è la parola “cifra”. Cosicché “Sifr” è “il nulla, il vuoto, lo zero, ma anche un nulla che prende forma e dimensione e diventa un numero a sua volta”, dichiarano i Motus Laevus. L’album scorre musicalmente come un vento, a tratti leggero a tratti più impetuoso, trasportando melodie tradizionali e brani originali. “Rappresenta un'evoluzione in confronto a “Y” – racconta Edmondo Romano – “che era già un album registrato in diretta con poi alcune sovra incisioni da parte di Fadda e da parte nostra. Quindi un disco che manteneva sempre un’impostazione diciamo ‘jazzistica’, perché tutto era registrato in presa diretta e questo fornisce all'esecuzione una vivacità completamente differente in confronto a una registrazione fatta separatamente
in multitraccia. In questo disco questo lavoro si è evoluto ancora di più, nel senso che c'è stato tantissimo studio e tantissime prove prima della registrazione e siamo arrivati in studio a registrare questa volta addirittura senza click, senza guida, e completamente liberi abbiamo scelto volutamente lo studio di Stefano Amerio (lo studio Artesuono di Cavalicchio in provincia di Udine, ndr), che è un tecnico molto capace e ci ha messi subito a nostro agio. Il bello è che si registrava in un bell'ambiente, ma poi ritrovatici in regia i suoni erano già ottimi corposi restituivano un ascolto già equilibrato. Questo disco è veramente un lavoro a cavallo tra world music e jazz come concezione, non abbiamo editato nulla se non pochissime cose. È un lavoro prettamente dal live: questo ci rende molto contenti perché si avverte che tutto è pulito. Se c’è una piccola ‘sporcatura’, non ha importanza: la musica non è perfezione, è espressione e ascolto”
. È un fluire naturale di partitura e di improvvisazione in un disco in cui il trio si presenta più compatto, più maturo nella sostanza sonora. Spiega ancora Romano: “Noi elaboriamo tutto assieme, anche se i brani vengono scritti quasi sempre da una sola persona. Però, poi tutto viene dato “in pasto” al gruppo e il brano viene reso in modo molto personale. Il bello dei Motus è che veniamo tutti e tre da tre mondi differenti; quindi, non siamo univoci nel nostro esprimere la nostra musica in un solo genere, ma riusciamo veramente ad equilibrare e quindi equilibrarsi tra noi. Il disco
presenta diverse facce dello stesso progetto, che in realtà sono espressioni di tre artisti differenti: Luca è più legato al jazz e al suono metheniano, io sono più legato alla world music e alla musica contemporanea e Tina appartiene invece al mondo più tradizionale del suo Paese: lei è slovena, ma comunque è una jazzista che mette tutta l’espressività della sua terra”
. Una confluenza di mondi ben rappresentata dalla scrittura sorprendente riservata alla composizione che apre il programma, “Nihavend longa”, in cui emerge un interplay spettacolare tra i tre musicisti e i loro ospiti. Il lento incedere iniziale del clarinetto basso è in dialogo con i tocchi vivaci del pianoforte, che con discrezione prende il sopravvento, girovagando con moto contrappuntistico e intersecando i disegni ritmici e armonici di chitarra, contrabbasso e percussioni. La melodia principale si infila prima furtiva poi si distende con pienezza fino al finale, quando la danza della autrice ottomana Kemani Kevser Hanim (1887-1963), che evocava le melodie rom rumene, culmina ritrovando la sua architettura originale. “Brala Jana Kapini” è un tradizionale macedone dalla metrica dispari, arrangiato con finezza, cantato magnificamente da Omerzo e segnato dal timbro del flauto pastorale furulya. Qui, si parla di Jana, una ragazza che raccogliendo more
incontra un giovane che le dà consigli su come muoversi per non calpestare gli ortaggi. Profonda bellezza nel mood melanconico e visionario di “La tredicesima ora”, che rivela un’elegante piacevolezza melodica, molto cantabile; il motivo è stato scritto da Luca Falomi e si rivela “un viaggio mentale – è stato concepito durante il confinamento pandemico – verso una meta indefinita”. Il senso della convivenza di molteplici direzioni e dell’incontro dei linguaggi espressivi del trio si manifesta altrettanto vividamente in “Misel vode” (ossia “Il pensiero dell’acqua!), una poesia composta da Omerzo dedicata all’acqua, il cui tema centrale è lo scorrere inesorabile della vita, dell’importanza di essere pronti nell’accogliere i cambiamenti anche nel pensiero. Nel successivo brano prende il sopravvento la frequentazione sonora di terre di Levante di lungo corso di Romano: protagonista dell’ariosa “Kukuk kus” è il fluier, sottile flauto rumeno dal timbro molto delicato ed esile. In turco il titolo significa “piccolo uccellino”, e tutto muove dall’idea del fiatista di dare forma a una “melodia veloce e leggera utilizzando il ritmo in 7/8 “per evocare il sospeso volo di un uccellino”, spiega ancora Romano. Con “Fondaco” è di nuovo la volta della notevole vena compositiva di Falomi. La parola di origine araba (da “Fanduq”, ossia “albergo”) ci porta a comunanze mediterranee e ai tempi delle repubbliche marinare, quando un fondaco poteva raggiungere la grandezza di un quartiere.
L’impronta araba e mediorientale si insinua nella composizione, che conserva canoni armonici occidentali, mentre, al contempo, innesta sequenze improvvisative e si nutre di deciso calore latin jazz. Pure “Taksim” ci proietta naturalmente verso l’Anatolia (è cofirmata da Omerzo e Romano), di cui il poli-fiatista dice: “Una lenta, profonda e sinuosa linea melodica che vuole rallentare il tempo. Come accade in molti brani mediorientali la guida è data dalla melodica (qui, composta con la voce in un’unica improvvisazione registrata, successivamente adattata per sax soprano), la parte armonica è stata aggiunta successivamente dal gruppo e Tina ha aggiunto alla mia scrittura la morbida e bella parte del ‘canone’, in cui si sviluppa il solo di sax soprano”. I Motus Laevus chiudono con un altro motivo tradizionale macedone, “Jovano Jovanke”, molto noto perché diffuso in tutta l’ex Jugoslavia, soprattutto in Serbia, ma anche nella Slovenia di Tina, che si lascia guidare dal ricordo di suo padre che lo cantava e suonava alla fisarmonica. Con pathos, ma anche con briosità ritmica, si canta dell’amore contrastato di un ragazzo nei confronti dell’amata. “Sifr” è un coinvolgente movimento senza confini, un’opera da assaporare, pienamente e ripetutamente. 


Ciro De Rosa

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