#CONSIGLIATOBLOGFOOLK
Quattro anni fa, a Nigel Williamson, Kalhor raccontava come da "cittadino del mondo, dalla parte degli artisti che con la musica favoriscono l'unità" abbia cercato di collaborare con musicisti "con un lignaggio che permettesse loro di rubare da me e io da loro, sviluppando insieme un nuovo linguaggio, qualcosa di inedito". I due casi esemplari citati erano il suonatore di sitar indiano Shujaat Khan (ed i quattro album in comune come Ghazal) e Toumani Diabaté.
"Le qualità che riguardano il minimalismo e la trance che mi piacciono nella musica persiana sono presenti anche nella musica di Toumani", dice Kayhan Kalhor. "È così che mi piace pensare e raccontare una storia. Queste qualità nella musica africana mi hanno sempre attratto e credo che Toumani le renda molto bene".
"È come se questa musica fosse già lì ad aspettarci", racconta Toumani Diabaté. "Ed è come se noi due ci conoscessimo già da prima, da un'altra vita".
L’album può essere ascoltato come un’unica suite, un viaggio in nove tappe.
L’estesa introduzione, “Wayfarers Of The Legends” è aperta da una cellula melodica del kamancheh cui risponde la kora; non c’è alcuna fretta: i due musicisti espongono e si ascoltano a vicenda dilatando gradualmente i tempi dei rispettivi contributi, lasciando poi a Kalhor lo sviluppo e la conclusione.
I due momenti più ampi ed
intensi della suite sono la seconda e l’ultima traccia, rispettivamente di quindici e nove minuti. Nel primo caso, "The Path of No Return", è la kora (anche nei suoi aspetti percussivi) ad offrire la cornice di riferimento, con ritmo di due battute su cui si inserisce il pizzicato del kamancheh, stabilendo una sintonia che permette alla conversazione di svilupparsi sempre fluida per poi sfociare in "Stay Here" una linea melodica pacata e forse dolente introdotta dalla kora, poi messa in rilievo e ripetuta dal kamancheh che la kora sa riprendere e amplificare nella parte finale del brano prima di accelerarne il tempo con la luminosa e sinergica "Joyful Sun" che esalta i rispettivi pizzicati. Diabaté, con "I'm Speaking to You", vira l’armonia in maggiore e mette in risalto la sua perizia tecnica costruendo un crescendo che rende ancora più introspettiva la domanda melodica posta da Kalhor con la breve ed emozionante “Whereto”. In “Anywhere That Is Not Here” la kora lo raggiunge ristabilendo le sinergie precedenti costruendo prima una fitta trama ritmico-armonica per poi dialogare in modo lirico.
È ancora una breve domanda, accorata, del kamancheh, “Is Anyone There?” a far da preludio al brano finale, “The Sky Is The Same Colour Everywhere”, che dà il titolo all’album offrendo finestre timbriche diverse per soli e dialoghi estesi e poetici, ad attraversare un ventaglio articolato di volumi e timbri, una musica che è “già lì” ad aspettarli.
Alessio Surian
Tags:
Africa