Kayhan Kalhor & Toumani Diabaté – The Sky Is The Same Colour (Real World, 2023)

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I festival di world music sono anche questo. L’occasione per far incontrare musicisti da continenti diversi. A due direttori di festival dobbiamo l’avvicinamento, negli ultimi vent’anni fra tradizioni musicali iraniane e maliane. L’idea è venuta al veterano Philippe Conrath (Festival Africolor Festival) che ha reso possibile l’incontro fra due famiglie culminato nell’album “Falak” (2002): i maestri dello zarb Chemirani vennero invitati a Sikasso per trovare un terreno comune con quelli del balafon Néba Solo. Nel 2011 sarà il trio Chemirani a ospitare e registrare con Ballaké Sissoko. L'idea per un duo di cordofoni è venuta cinque anni dopo a Michael Dreyer, direttore del Morgenland, il Festival di Osnabrück dove Kayhan Kalhor è stato più volte protagonista. In questo caso, a settembre 2016, il kamancheh di Khalor e la kora di Toumani Diabaté si sono incontrati direttamente alle prove del suono sul palco: un semplice controllo di toni e volumi, prima di dar vita ad uno splendido concerto di un’ora e mezza. Ne è seguito un breve tour europeo che ha mantenuto l’andamento musicale del primo appuntamento. Dopo l'ultimo concerto a Bruxelles scelsero Parigi per documentare l’incontro in studio di registrazione, con l’ingegnere del suono Noël Yann negli studi Midilive a Villetaneuse. Al missaggio (non del tutto impeccabile nelle transizioni fra alcune tracce) hanno pensato Ramin Zamani e lo stesso Kayhan Kalhor, nel Sonic Design Studio di Los Angeles. 
Quattro anni fa, a Nigel Williamson, Kalhor raccontava come da "cittadino del mondo, dalla parte degli artisti che con la musica favoriscono l'unità" abbia cercato di collaborare con musicisti "con un lignaggio che permettesse loro di rubare da me e io da loro, sviluppando insieme un nuovo linguaggio, qualcosa di inedito". I due casi esemplari citati erano il suonatore di sitar indiano Shujaat Khan (ed i quattro album in comune come Ghazal) e Toumani Diabaté. "Le qualità che riguardano il minimalismo e la trance che mi piacciono nella musica persiana sono presenti anche nella musica di Toumani", dice Kayhan Kalhor. "È così che mi piace pensare e raccontare una storia. Queste qualità nella musica africana mi hanno sempre attratto e credo che Toumani le renda molto bene". "È come se questa musica fosse già lì ad aspettarci", racconta Toumani Diabaté. "Ed è come se noi due ci conoscessimo già da prima, da un'altra vita". L’album può essere ascoltato come un’unica suite, un viaggio in nove tappe. L’estesa introduzione, “Wayfarers Of The Legends” è aperta da una cellula melodica del kamancheh cui risponde la kora; non c’è alcuna fretta: i due musicisti espongono e si ascoltano a vicenda dilatando gradualmente i tempi dei rispettivi contributi, lasciando poi a Kalhor lo sviluppo e la conclusione. I due momenti più ampi ed
intensi della suite sono la seconda e l’ultima traccia, rispettivamente di quindici e nove minuti. Nel primo caso, "The Path of No Return", è la kora (anche nei suoi aspetti percussivi) ad offrire la cornice di riferimento, con ritmo di due battute su cui si inserisce il pizzicato del kamancheh, stabilendo una sintonia che permette alla conversazione di svilupparsi sempre fluida per poi sfociare in "Stay Here" una linea melodica pacata e forse dolente introdotta dalla kora, poi messa in rilievo e ripetuta dal kamancheh che la kora sa riprendere e amplificare nella parte finale del brano prima di accelerarne il tempo con la luminosa e sinergica "Joyful Sun" che esalta i rispettivi pizzicati. Diabaté, con "I'm Speaking to You", vira l’armonia in maggiore e mette in risalto la sua perizia tecnica costruendo un crescendo che rende ancora più introspettiva la domanda melodica posta da Kalhor con la breve ed emozionante “Whereto”. In “Anywhere That Is Not Here” la kora lo raggiunge ristabilendo le sinergie precedenti costruendo prima una fitta trama ritmico-armonica per poi dialogare in modo lirico. È ancora una breve domanda, accorata, del kamancheh, “Is Anyone There?” a far da preludio al brano finale, “The Sky Is The Same Colour Everywhere”, che dà il titolo all’album offrendo finestre timbriche diverse per soli e dialoghi estesi e poetici, ad attraversare un ventaglio articolato di volumi e timbri, una musica che è “già lì” ad aspettarli. 


Alessio Surian

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