Graiu – Tora (Fiver House Records, 2023)

La prima considerazione da fare ascoltando “Tora” è il sorprendente canto di Alina-Carmen Ciolcă, voce potente e profonda, portatrice degli abbellimenti e del vibrato riconducibili all’espressività tradizionale romena, ma piena anche di richiami rock-blues di ispirazione jopliniana. Le sono accanto due dotati strumentisti che non mancano di inventiva: Mac Marian Aciobăniței (chitarra elettrica) e Adrian Chepa (basso, percussioni e scacciapensieri). “Graiu” è parola romena che indica la lingua vernacolare locale, perché l’intento del trio è offrire una convivenza ardimentosa tra repertori afroamericani e patrimoni tradizionali romeni, con l’orecchio rivolto al portato linguistico romanzo (Vlach) di questa parte dei Balcani. Alla base di tutto c’è lo studio delle ricerche e delle storiche incisioni di Alan Lomax nel sud degli States, ma pure del suo field work nella Transilvania degli anni Sessanta. Nel 2019, sotto il nome di Alina Ciolcă & Band, il trio ha pubblicato “A chant of worlds”, adesso approfondiscono la loro originale formula in “Tora” (“Ora” in lingua aromena), album che linguisticamente esplora i quattro dialetti romanzi balcanici: aromeno, megleno-romeno, istro-romeno e daco-romeno, con un ventaglio di forme che attraversano questi territori, dalla Romania alla Grecia, dalla Bulgaria all’Albania e fino alla Croazia. Spiega Alina: “Il motivo per cui abbiamo scelto di sviluppare questa fusione e di costruire un ponte culturale è la rivelazione di quanto simili fossero il canto e le strutture melodiche tradizionali nella cultura afro-americana e in quelle daco-romena e aromena. Abbiamo rappresentato praticamente tutti i generi che hanno avuto un posto all’interno del patrimonio afroamericano prima del blues e del jazz: field-hollers, grida di schiavi, spirituals, gospel, canti di lavoro (la maggior parte dei quali registrati nelle prigioni di lavoro come Parchman) e ballate. Addirittura, abbiamo creato uno speciale concerto concettuale che esplora esclusivamente il folklore afroamericano, intitolato “Free inside”: cioè la libertà spirituale in assenza di libertà fisica che era la condizione del collettivo afroamericano creatore di questo folklore. La maggior parte di queste canzoni, soprattutto la musica popolare religiosa, esprime in modo più o meno sottile un’aspirazione alla libertà. Molte delle canzoni afroamericane che abbiamo registrato o che eseguiamo nei concerti sono canzoni iconiche che sono state in qualche modo integrate in varie interpretazioni più contemporanee nella cultura blues/rock/jazz”. Il lirismo di “Anamisa di doi lai munts”, che significa “Tra due montagne”, in cui il paesaggio naturale evocato dal canto aromeno della Tessaglia è un pretesto per rivolgersi a una bella fanciulla, e la hora della Bucovina “C-aşa Giucau Bătrăni” aprono il lavoro con i loro respiri rock che ammantano i due brani tradizionali. Vitale e intensa, l’Afro-doina (registrata dal vivo, come altri dodici brani dell’album) dà il senso delle corrispondenze ricercate e presentate nel progetto musicale: qui, si incontrano un holler del Mississippi e una doina della regione di Maramures, temi entrambi eseguiti di solito a cappella e dal carattere improvvisativo. Oltre alle riletture di composizioni di tradizione orale, i Graiu inseriscono in scaletta ben noti canti gospel, slave shout, prison song e spiritual (“John the Revelator medley”, “If I had my way”, “Early in the morning”, “Soul of a Man”). A dirla tutta, pure se il cantato e la resa strumentale rivelano un trio affiatato e credibile e che sa il fatto suo, i brani afroamericani non fanno altrettanto breccia quanto i motivi romeni, rendendo paradossalmente meno compatto quest’album che esplora i punti comuni tra culture popolari apparentemente distanti. La chitarra accompagna languidamente “Durostore, Durostore”, una ballata della Dobrugia meridionale, cui segue la più ritmata “Ascultats la fete”, un canto satirico aromeno dall’Albania. In “Nu nă dzăț patrioți” è messa al centro la memoria di un soldato (aromeno), combattente dell’esercito greco nella fallita campagna militare del 1922, conclusasi con la sconfitta ellenica di Sakarya, che ricorda le privazioni e il desiderio di tornare a casa. Un altro evento storico fa da contesto alla ballata megleno-romena “Coanticu lu Boșca”, (La ballata di Bosca Pupea: difensore dell’identità megleno-romena), dove si parla della conquista della regione di Meglen da parte della Grecia nel 1913 e del conseguente e tragico scambio di popolazioni. Lo scacciapensieri principia “Cucule, penele tale”, motivo in cui si leva, da brividi, la voce nuda di Alina che intona un lamento funebre in lingua daco-rumena. Si cambia registro con i riff di chitarra elettrica che incidono su una serrata base ritmica nella canzone “Mushuteatsa ataua, fiată”, in lingua aromena dell’Albania. Oltre, “Cântecul miresei” è un canto nuziale daco-romeno della Valacchia. Si susseguono canzoni di tema amoroso, ma se in “Batu Giumaru”, superlativa per intensità interpretativa, e nei tempi dispari di “Chitu Mila”, la relazione è ancora viva, nell’ambientazione dark del canto istro-romeno “Preste codru-am amnaveit” (Ho vagato nella foresta) prevale il senso di perdita che segue a una rottura, così come pure nella accorata “Mi lo dorlu” (Il desiderio mi ha sopraffatto) che trova sponda nel classico “Soul of a man”. Chiusura con la commovente canzone daco-romena “Trandafir de pe răzor”, in cui l’amore è richiamato dall’immagine iniziale di una rosa nel crinale di un campo. Appassionata rivisitazione della tradizione folk: prendete nota. 


Ciro De Rosa

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