Béla Fleck, Edgar Meyer, Zakir Hussain, featuring Rakesh Chaurasia – As We Speak (Bela Fleck Productions, 2023)

Chi è alla ricerca di sperimentazione ma, soprattutto, di originalità, troverà in “As we speak” ottimi spunti di riflessione. È un album privo di declinazioni, che percorre la linea dell’improvvisazione e accarezza una world music veloce, fresca, profonda. Le traiettorie non sono quelle dei generi. Tutto si assembla dentro i suoni di strumenti caratterizzanti. Innanzitutto, perché siamo dentro l’orizzonte americano di Bela Fleck – il banjoista per eccellenza, che non si ferma davanti a nulla. E che qui lavora con il tablista per eccellenza, Zakir Hussain: provate a immaginare un suono composito, corposo e scivoloso allo stesso tempo, che definisce il profilo inafferrabile di brani liquidi, densi, colati tra migliaia di corde pizzicate e pelli flessuose che rimbombano come in un canyon. Provate a verificare – dopo qualche ascolto – la “verità” della matrice ritmica di questi due strumenti, che si accoppiano come se niente fosse più naturale, irradiando un ciclo continuo di vibrazioni e “abbondanze”. Provate per credere: la maglia fitta di un ritmo astratto, dall’India classica all’America americana, che avvolge lo spirito puro, estemporaneo, di una composizione elastica, mistica, porosa, fatta di salti, di eccessi, di note che sembrano solo immaginate. Di note e toni che hanno la forma duplice del suono e del ritmo: una nuova dimensione che, paradossalmente, solo la ristrettezza timbrica di questi due strumenti potrebbe determinare. La novità è così forte che sembra, in alcuni passi, di ascoltare un nuovo strumento (“Rickety Karma”). Cioè, di riconoscere il trasporto estremo di musicisti che si sono trovati davanti a un’epifania. E che – da bravi argonauti – hanno esplorato, analizzato e interpretato: scavando fino all’osso. Aggiungendo, quasi subito, qualcosa che sembrava mancare (perché una visione non deve avere limiti): un tono intermedio, un composto elastico che rifornisse di spessore il tono del banjo, afferrando e impastando, allo stesso tempo, le frequenze delle tabla. Nome e cognome: Edgar Meyer. Strumento: il suo contrabbasso. Suonato come un violino, un’arpa e un pianoforte. Insomma, un altro pianeta. Anche perché Meyer – come se non bastassero le sue dita e il suo tocco, il suo ritmo di velluto – spesso usa l’archetto, e potete (a questo punto) immaginare come si arrivi a configurare qualcosa che sembra, nella sua forma più estrema e inverosimile, una sinfonia indoamericana. Che comprende un jazz senza tempo – richiamato dall’assetto di Meyer – e un folk senza spazio, che emerge dalle ambiguità timbriche del banjo di Fleck. Direi, a questo punto, che si possa parlare di una musica tanto divergente quanto sincronizzata. Cioè che la convergenza immaginata (realizzata?) da questi musicisti sia stata possibile solo in una dimensione del tutto esplorativa, che va oltre la sperimentazione. In questa dimensione, il principio dell’esperimento esce dai binari. Non vi è il procedimento graduale della scoperta. Vi è una procedura di verifica costante di un’intuizione, che lascia tutto aperto. E che, in ultima analisi, ci lascia con la sensazione di assistere a un transito, a qualcosa che sta prendendo forma ma che sia destinato a divenire qualcos’altro. Alcuni momenti sono talmente intensi (“Pashto” ) che sembra addirittura impossibile ascoltarne gli esiti: si possono comporre certi suoni? Oppure si possono solo suonare, emettere, praticare? Ecco, questa accelerazione nella consapevolezza di chi si lascia attraversare dall’album abbraccia molti livelli dell’ascolto. E diviene più evidente con le incursioni del quarto elemento, il flauto di Rakesh Chaurasia. Che immette nel cerchio infinito dei brani un fluido, un balsamo (“Conundrum”) che ammorbidisce le velocità, rendendo ancora più ignoto l’esito di quelle traiettorie. Arrivando all’ultimo brano riconosciamo una convergenza più piena degli strumenti. Il banjo e il contrabbasso arrivano a danzare in un unisono rivelatore sul calpestio psichedelico delle tabla. Il linguaggio ci ingaggia con un arpeggio solare e si rivela nel riflesso del titolo: “As we speak”, come l’album. 


Daniele Cestellini

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