Munojat Yulchieva – Selected Pieces (Felmay, 2023)

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Illuminato gesto dell’etichetta piemontese Felmay che con questo album offre un florilegio dell’arte interpretativa d Munojat Yulchieva, la carismatica interprete della musica classica uzbeka. Nata nel 1960 nel distretto di Andijan, nella valle di Fergana (Uzbekistan orientale), a 18 anni Yulchieva entra al conservatorio di Tashkent, sotto la guida del murshid Shavkat Mirzayev, che ne riconosce immediatamente le qualità vocali e il timbro nel quale aleggiano i cantanti sufi del passato. Il maestro la dispone a studiare il repertorio d’arte dello shashmaqâm, all’epoca trascurato, evitando di “sporcare” la sua voce nelle lucrose esibizioni ai matrimoni. Per di più, inventando un nuovo stile, la spinge a combinare le tecniche di emissione tradizionali (guligi e biligi) con quelle belcantistiche. Il concerto in TV del 1978 le apre le porte del successo; entra nell’orchestra di maqom della radio nazionale uzbeka. Da lì in poi, quella di Yulchieva è un’ascesa artistica strabiliante: lavora con la Filarmonica di Stato, attraversa i sovvertimenti politici del Paese e ottiene riconoscimenti: nel 1991 è stata insignita del titolo di «Artista del Popolo dell'Uzbekistan», a cui seguono molti altri premi in patria e all'estero 1. Nel libretto a colori di 16 pagine il testo introduttivo, in inglese, dell’accademico Giovanni De Zorzi (Università Ca’ Foscari di Venezia), uno dei massimi studiosi del sistema musicale del
maqam e della musica dell’Asia Centrale, inquadra il sistema musicale uzbeko nel più ampio mondo modale che dall’Anatolia, attraverso l’Iran e il Caucaso, giunge all’Asia centrale e financo in Cina, e ci guida dottamente all’ascolto del programma dell’album, la cui rilevanza risiede nella scelta meticolosa di undici brani, registrati in Uzbekistan fra il 2006 e il 2011, che esaltano le qualità della cantante di Fergana, la quale ha accanto un’orchestra di strumenti tradizionali suonati da eccellenti musicisti, tra i quali spiccano proprio il suo mentore Mirzaev al liuto rubob e il compianto Turgun Alimatov al liuto a manico lungo tanbur e al violino sato. Ad aprire è “Chorgoh”, un gazal, forma poetica d’origine arabo-persiana, eseguito con grande intensità dalla cantante: è un tema tradizionale su un testo di Nodira, nome d’arte della poetessa Mohlaroyim e statista, vissuta a cavallo tra fine XVIII secolo e metà del XIX. Segue un gazal dalla struttura più moderna (composto dal mentore Shavkat Mirzaev) in cui la tessitura vocale di Yulchieva si esprime pienamente. Il maestro è al centro anche dei due successivi gazal: “Qayondur”, in cui la bella eterofonia portata dall’ensemble è segnata dal timbro del qoshnay (aerofono ad ancia semplice costituito da due canne) suonato da Ikrom Matanov, uno dei suoi maggiori virtuosi. L’archetto di Alimatov imprime una spinta a “Nihon Etdi”, mentre la fidula puntata ghijak guida l’ensemble in un altro componimento poetico, “Kim desun”, su musica tradizionale. I liuti robab e dutor sono protagonisti di “Naylayin” – musica composta da Jo‘raxon Sultonov (1903-1965) – un altro motivo nel quale la cantante fa sfoggio della sua eleganza vocale. Parliamo di un mezzo-soprano, con un’estensione di due ottave e mezza, che le consente di interpretare tanto canti eseguiti di solito da donne quanto repertorio
maschile. Seguono due composizioni appartenenti a suite modali del repertorio dello shashmaqom nella cui struttura sono interpretati superbamente due gazal, “Nim cho’ poni” (in maqom Segoh) e “Musta’zodi navo qashqarchasi” (in maqom Navoof), i cui testi risalgono rispettivamente al XV e al XVI secolo. A spiccare è la sezione strumentale che annovera ghijak, nay e qoshnay. Una deviazione dal classicismo la porta “Ul kim jono”, melodia di derivazione folklorica: un “katta ashula”, che si riferisce a un tema in metro libero diventato un genere semi colto. Qui, la voce si muove liberamente tra gli arpeggi del rubato del tanbur e il bordone fissato da nay e ghijak: una delizia assoluta. Tanbur e nay dirigono la scena nel vivace motivo che sposa un gazal novecentesco (“G’uncha yanglig”) in cui il canto sublime di Munojat sale lentamente raggiungendo l’âwj, lo zenith, tessitura di registro acuto che rappresenta il vertice espressivo e drammatico di un canto. Infine, il ciclo ritmico di “Sarahbori Dugoh” – con i suoi oltre undici minuti, è il brano più lungo del lavoro – è portato dal tamburo a cornice doira, mentre nay e ghijak suonano questa melodia su un maqom dugoh. La cantante propone l’introduzione vocale (sarakhbor) della suite, esprimendo ancora una volta la sua enorme levatura artistica. È rara bellezza.


Ciro De Rosa

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1  Per un approfondimento sul ruolo svolto dalle donne nella cultura musicale uzbeka, con la messa in discussione della distorta visione occidentale delle donne dell'Asia centrale, rinviamo al lavoro di Tanya Merchant “Women Musicians of Uzbekistan: From Courtyard to Conservatory”, University of Illinois Press, 2015. Sullo stesso tema interviene proprio la diva uzbeka nell’intervista che trovate su YouTube.

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