Giuseppina Casarin – Vista da Tera (ApARTe°, 2023)

Giuseppina “Beppa” Casarin canta Luisa Ronchini

Due tappe fondamentali per la conoscenza del canto di tradizione orale a Venezia e dintorni sono state le ricerche di Alan Lomax e Diego Carpitella a Novembre del 1954 e di Luisa Ronchini, a partire dagli anni Sessanta, insieme a Gualtiero Bertelli, Alberto D’Amico, Emanuela Magro. Nel primo caso si è trattato, in primo luogo, di documentare musiche e canti, depositati nella Raccolta 24 degli Archivi di Etnomusicologia e parzialmente pubblicati in CD dalla Rounder. Per Luisa Ronchini si è trattato, soprattutto, di apprendere e saper riproporre (dal vivo e con dischi e cassette) le voci delle classi subalterne e, in particolare, delle donne; questo non vuol dire che non abbia prodotto un significativo lavoro di documentazione, oggi conservato nell’archivio della Società di Muto Soccorso “E. De Martino” di Venezia e, in parte, documentato da Fonit Cetra, I Dischi del Sole e dall’album Nota del 2001. Nel prezioso documentario “La Terra dei canti” di Vincenzo Agosto e Cinzia Ferranti, Giuseppina “Beppa” Casarin scegli di raccontare la tradizione del canto orale proprio nel contesto della Calle dei forni nel quartiere Castello di Venezia, “patria” elettiva di Luisa Ronchini. Per Beppa Casarin, il canto di trasmissione orale “è come un richiamo, come una radice viva che cerca nuove strade e nuovi percorsi […] offre la possibilità di stare in preghiera o di scoprire il proprio dolore, ma è anche una modalità di stare insieme, con il suono e con la voce, che in qualche modo avevamo dimenticato. Quindi la coralità sta nel partecipare, ma anche nell’ascolto, nel trovare insieme le modalità per inserirci nel canto di un altro”. Ha condiviso progetti musicali e teatrali con Gualtiero Bertelli, in particolare la “Compagnia delle Acque”, e con Sandra Mangini e Rachele Colombo. Fedele ad un’idea di canto “nel mondo”, nel 2008 ha fondato a Mestre il Coro Voci dal mondo, circa 60 voci che programmaticamente hanno voluto comprendere persone senza cittadinanza italiana. Cinque anni dopo ha dato vita anche al Coro delle Cicale, gruppo femminile con un
repertorio itinerante tra i diversi canti di tradizione orale del Nord e del Sud dell’Italia, attento ai temi legati al mondo popolare, e alle diverse declinazioni della vita quotidiana: il lavoro, la fatica, la festa, l’amore, la ritualità religiosa, aprendo spazi di ricerca per le espressioni della vocalità sia in forma solistica che corale. 
Già la “La Terra dei canti” aveva fornito tre illuminanti esempi veneziani di questo lavoro: “Sant’Isepo” (canto di batipali), “L’odor” (canto dei venditori ambulanti di pesce a Rialto), “Peregrinazioni lagunarie” (mappa della laguna attraverso un canto popolare). Più recentemente, ha unito questi e altri gruppi portandoli sulla rotta balcanica attraverso un percorso che ricercava attivamente forme di incontro e di solidarietà, il viaggio “Alla ricerca di Simurg”, protagonista anche del recente concerto itinerante, dentro e fuori la sede di Emergency alla Giudecca nell’ambito dell’ultimo festival “Luigi Nono”. Più attenta alla dimensione laboratoriale e collettiva, ha finalmente trovato il tempo per trasformare in un album lo spettacolo "Vista da Tera", con alcuni dei brani mai incisi del repertorio di Luisa Ronchini, insieme a “O sono inganatore”, emblematico del percorso che per anni ha legato le due cantanti e che oggi trova nuova linfa nei concerti dal vivo in cui l’accompagnano Nogarin e Paolo Calzavara.

Come è nato questo disco?
Sono tanti anni che canto, ma un disco non l’avevo ancora registrato. Il senso di questo disco è far luce su 
canti raccolti e creati da Luisa Ronchini rimasti “sommersi”. La finalità del lavoro di Luisa non era tanto la conservazione scientifica, con le modalità di una raccolta sistematica, quanto piuttosto la conoscenza dei canti per poterli riproporre, con le sue modalità e in negli anni in cui ha cantato. Il libro e audiocassetta “Sentime bona zente”, che ha curato, racconta i canti. Mancano, invece, indicazioni su dove e con chi sono stati registrati. Rimane un patrimonio di conoscenze, un lavoro unico per chi continua a studiare il canto della tradizione veneziana. L’edizione fu curata da Filippi, ma, purtroppo, non è stato più ristampato ed è accaduto che sia stato scartato dalle biblioteche del Comune di Venezia: conservo una copia con il timbro “scartato”. È accaduto che ricercatori attenti quali Antonella De Palma e Cesare Bermani se ne siano interessati, ma, purtroppo, Luisa è stata conosciuta soprattutto come artista, attraverso i suoi concerti, e non riconosciuta anche come ricercatrice.

Quando hai conosciuto Luisa Ronchini?
Da adolescente ascoltavo i suoi dischi, li conoscevo a memoria, tutte le voci e le armonizzazioni. Nel 1984, a Venezia, Gualtiero Bertelli, che conoscevo da qualche anno, mi coinvolse in un concerto organizzato da un’associazione di genitori con figli tossicodipendenti, all’Arsenale insieme a Luisa e Alberto D’Amico. Conoscerla di persona è stata una grande emozione perché per me rappresentava non soltanto la voce dei canti della tradizione, ma anche quella dei canti di lotta del movimento femminista. Sapeva collegare i canti con ciò che testimoniavano e con le lotte delle donne in quel periodo. Ne è nato un rapporto: Luisa mi ha insegnato canti, abbiamo tenuto alcuni concerti insieme, a volte coinvolgendo anche Alberto D’Amico. Negli anni Ottanta la musica di tradizione orale era un po’ “sola” nella sua
dimensione artistica, non era più la bandiera di un movimento. L’incontro con me era per lei anche un’occasione di avvicinamento a una persona più giovane. E le nostre voci cantavano bene insieme: io da soprano, lei da contralto. Andavo a trovarla a casa sua in Calle dei forni, a Castello, in mezzo alle sue bambole e ai suoi giocattoli antichi. Mi ha fatto conoscere molti canti a me sconosciuti. Purtroppo, soffrì un ictus e il concerto nel 1993 per il centenario della Camera del Lavoro di Venezia fu il suo ultimo concerto. In quell’occasione parteciparono Monica Giori, Stefano Maria Ricatti, Oreste Sabbadin: fu un momento in cui riuscì a cantare benissimo nonostante l’ictus appena subito.

Come hai selezionato e realizzato i brani di “Vista da Tera”?
Di alcuni brani ho le registrazioni con la voce di Luisa, a volte con le nostre due voci, come per “Rosetina”, che apre l’album con un canto di dolore di una donna. Lo stesso vale per “Sentime Bona Zente”, “Napoleone” e per la “Ninna nanna” finale che, per il suo andamento, penso sia una sua creazione, pur vicino alle ninne nanne veneziane: ne aveva registrate una decina da donne veneziane, a Castello, dove abitava Maddalena Lucco, a Cavallino Tre Porti, a Chioggia. Già negli anni Cinquanta ne aveva registrata una anche Diego Carpitella. Usava registratori molto semplici, i Geloso. Tutti i suoi nastri a bobine e le audiocassette sono oggi all’Istituto De Martino dove sono stati digitalizzati. Altri brani sono fra quelli che ho appreso da lei, come “O sono inganatore” e “Lamento” che è una sua creazione: ho un frammento di melodia cantato da lei; parte del testo viene dal libro “Sentime Bona Zente”; l’altra parte da suoi appunti, presi durante una prova e che avevo conservato. “Sant’Isepo”, canto dei batipali, appartiene ad una raccolta di Antonella De Palma e Piero Brunello, ed è stata cantata da Espedita Grandesso che continua a tramandare un repertorio molto nutrito. Lo canta come se fosse una filastrocca, valorizzando la narrazione, il viaggio attraverso il Mediterraneo, l’Egitto, la sabbia. È molto evocativo degli innumerevoli viaggi cui tanta umanità è oggi costretta. Inciderlo con Emmanuel Pedro Duru, del Coro Voci dal Mondo, sta anche a sottolineare un viaggio musicale che continua dove lo stresso tragitto è percorso da nuovi desideri, dalla ricerca dei luoghi in cui si possa stare. A suo tempo, a questo
repertorio hanno prestato attenzione anche Lomax e Carpitella e Poi Luigi Nono, con “Santo Michele”: sono canti che trasmettono l’energia e il ritmo del lavoro. “Sentime Bona Zente” è un canto “lanciato in calle”, evoca le voci di un gruppo di donne sedute che cantano insieme, in questo caso il Coro delle Cicale. È un modo di fondere un paesaggio sonoro antico con quello contemporaneo e a questo hanno contributo gli interventi sonori di Paolo Calzavara che nascono dall’idea di creare uno contesto in cui il canto si possa collocare: un modo di sollecitare l’immaginazione di uno spazio che rimanda ad altri luoghi. Spero si presenteranno altre occasioni per presentarlo dal vivo, come è già avvenuto a Spilimbergo a fine aprile con l’Associazione Gottardo Tomat con cui lavoro e animo un laboratorio sul canto di tradizione orale in Friuli.

Dai tuoi laboratori sono nati altri cori: vorresti raccontarci il Coro delle Cicale?
È un coro di donne che da dieci anni studiano insieme i repertori di tradizione orale. Questo lavoro collettivo ci porta ad approfondire il canto come forma di ascolto di sé in relazione al gruppo. Sui canti svolgiamo un’analisi per capirne le fonti, la natura: ci portano nel mondo delle donne, dei contadini, di forme di vita che appartengono alla nostra storia. È un percorso di conoscenza importante che ci ha portato a dar vita a progetti diversi attraverso il canto di tradizione orale, entrando in relazione con mondo diversi: da piccole comunità della Carnia ai canti legati alla condizione della donna, fino all’incontro con il Coro Voci dal Mondo, con Oreste Sabbadin sull’improvvisazione vocale e con il teatro nel lavoro con Sandra Mangini su Zanzotto. Teniamo e siamo molto interessate al fatto che molti canti di tradizione narrano storie che ci riconducono al tempo presente: questo da un senso al nostro riproporli anche come
storie della contemporaneità: è questa la radice viva del canto.

Come prosegue il viaggio “alla ricerca di Simurg”?
Simurg ha coinvolto in Veneto e Friuli molti gruppi e persone, almeno ottanta, e ha risvolti umani, politici. È stato un modo di dotarsi di un luogo dover dar forma a desideri di solidarietà, tenuti insieme dal lavoro sul cantare insieme, coinvolgendo ogni volta un nucleo base di quindici-venti persone che avevano alle spalle la rotta balcanica. È diventato un’occasione per conoscere il loro viaggio e la loro condizione. La musica unisce. In questo caso, mano a mano che il percorso si sviluppava e si apriva, l’aspetto musicale interessante ha riguardato il modo in cui alcuni canti si trasformano, musicalmente, in qualcos’altro. Persone di provenienza diversa hanno offerto nuove strofe a canti antichi, come quello dei batipali. Riuscire a far qualcosa di transculturale con cori multietnici significa impegnarsi a lungo termine, nella consapevolezza che ogni frutto interculturale si basa su un ampio lavoro basato sul relazionarsi attraverso la musica, sulle possibilità di incrociare, davvero, linguaggi. Il 13 maggio saremo al Festival “Sabir” a Trieste, un modo per chiudere un cerchio, per tornare sul confine, tappa cruciale della rotta balcanica.  Ci ispiriamo alla Conferenza degli uccelli, alla metafora del volo e dell’unità di chi ricerca. Con il Coro Voci dal Mondo abbiamo trovato una modalità specifica di ricerca legata a volo, al canto in movimento nei luoghi urbani. È una ricerca iniziata dieci anni fa e intersecata al significato e alla consapevolezza del portare sul palcoscenico persone che, per strada, vengono identificate come migranti e che il palcoscenico presenta nell’evidenza sia che si può stare insieme, sia della bellezza dei codici narrativi.

Giuseppina Casarin – Vista da Tera (ApARTe°, 2023)
Novembre 2022: i brani raccolti in questo album sono stati realizzati nell’arco di un mese, registrati e mixati da Simone “Cimo” Nogarin a Mirano, fotografando in otto tracce il rapporto di studio, amicizia, creatività che quasi quarant’anni fa si stabilì fra Luisa Ronchini e Giuseppina “Beppa” Casarin. È un viaggio nella canzone popolare veneta in cui non mancano sollecitazioni extra-territoriali. Il brano di apertura inizia con le parole “Stamatina mi sono alzata” e termina con “Tuti quei che passeranno / mi diranno che bel fior”, ma non si tratta di “Bella ciao”, è “Rosetina”: una figlia si rivolge alla madre nel momento in cui si sente tradita dall’amato. L’album è dedicato al repertorio e alla ricerca di Luisa Ronchini e la sua voce, la grana unica del suo timbro, compare proprio al centro dell’album, all’inizio della quarta traccia, con la strofa “E sento suonar la campanela”, una registrazione personale di Beppa Casarin che pone qui ad incipit di “Napoleone”, il brano con un testo di meno immediata comprensione, cantato a Luisa Ronchini in Lombardia da Palma Facchetti: “vogio scrivere la vita mia/ che l’è diciot’ani che fasso el soldà”. A esprimersi in prima persona in dialetto veneto è lo stesso condottiero francese, stanco di guerra – un bel canto in chiave internazionalista e antimilitarista insieme a “Son tre ani” (raccolto a Padova nel 1971 da Piera Nicolé) che maledice “’’sta guera crudele/ che ae mame i figli fa desmentegar”. L’attenzione principale di questo repertorio resta, però, il sentire e la condizione delle donne, la loro voce: da quella delle “impiraresse”, le donne che lavoravano infilando – in fili di cotone – le perline di vetro prodotte a Murano, permettendone così un più agile trasporto e vendita,  a quella del Coro delle Cicale, Elisa Giolo, Cinzia Ferranti e Martina Ferraboschi. Entrambe sono riunite in “Sentime bona zente”, l’unico brano in cui Beppa Casarin suona anche la fisarmonica, ad accompagnare la canzone d’amore da cui prende il titolo l’imperdibile raccolta di “canti, conte, cante del popolo veneto” del 1990 di Luisa Ronchini. I due diversi impasti vocali, di impiraresse e Cicale, si fondono per un momento ad inizio di “Sentime bona zente” e fanno percepire questo passaggio di testimone, con le attività di documentazione e proposta dal vivo di Ronchini e Casarin, che hanno fatto sì che canti sociali - spenti dalla modernità degli anni Cinquanta e Sessanta – venissero ascoltati, imparati e ricontestualizzati nel Veneto della repentina sostituzione del “cason” con il “capannon”. 
Si è trattato di una riproposizione dalla parte delle lotte sociali e delle donne: la lunga frequentazione di questo repertorio permette a Beppa Casarin di distillare a cappella quasi tutta la musica raccolta in “Vista da Tera”, veicolando un tono sempre commisurato alle sollecitazioni narrative di ciascun brano, con una voce che, nei diversi passaggi, diventa poeticamente lieve, intima e dolente, capace di conforto, di denuncia. O di abbandonarsi alla forza di gravità, come avviene con “Sant’Isepo” in cui il cajon e la voce di Emmanuel Pedro Duru si uniscono alla voce di Beppa Casarin a fondere la trama sonora dei canti dei batipali veneziani con quella dei cori che offrono cittadinanza ai percorsi migratori, come nel caso del Coro Voci dal Mondo. Analogamente, in “O sono inganatore”, il flauto di Petru Dinjos si unisce alla fisarmonica di Gualtiero Bertelli e alle chitarre di Simone Nogarin. Luciano Marini offre il suo basso in “Lamento” (elaborazione che Luisa Ronchini fece di “Il lamento della vedova”). A cucire acusticamente i diversi brani ci pensano gli interventi di Paolo “Pax” Calzavara, a disegnare un’ecologia e collage sonori che tengono insieme registrazioni e elaborazioni di suoni ambientali e discreti sintetizzatori artigianali. Chiude il percorso una breve e toccante “Nina nana”, la stessa cantata da Luisa Ronchini nel 1993 al concerto per il centenario della Camera del Lavoro: tre strofe di cui non c’è traccia nel suo archivio di canti popolari, eppure in intima sintonia con le ninne nane veneziane, forse una sua creazione, nel testo e nella musica, che è anche un precipitato di tutte le ninne nanne raccolte e ascoltate nei decenni a Castello e nella laguna veneziana.
L'album è in allegato al n. 19.41 della rivista ApARTe° e può essere richiesto scrivendo direttamente a Giuseppina Casarin: pinaluneo@gmail.com.


Alessio Surian

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