Jono Manson – Stars enough to guide me (Blue Rose/IRD, 2023)

Suono deciso, andamento fluido, atmosfera folk-rock (con tutti gli elementi che più la connotano, dalla strumentazione elettroacustica agli scenari che questi evocano) e un’evidente propensione al positivo. Questo racchiude Jono Manson nel suo ultimo album “Stars enough to guide me”, riconducendo undici tracce perfette ed equilibrate a una carriera splendente, percorsa, senza deviazioni significative, nel solco di una narrazione passionale (vera, positiva) e coerentemente “americana”. Questo termine è un ancora per Jono – che, come sappiamo, oltre a comporre e suonare, produce – e non stupisce che lo sia diventata, nel corso degli anni, anche per i suoi estimatori. Lo è anche per noi: non per semplificare ma per rifugiarsi, fin da subito, nella chiarezza. Chi conosce Jono Manson sa cosa deve aspettarsi, perché sa cosa di lui si può apprezzare di più: la mancanza di esitazioni nella ricerca del timbro o nella definizione della struttura, la costruzione di un suono accurato e pulito, l’elaborazione di una poetica che mira alla descrizione, alla rappresentazione di uno scenario che muta pur in una sorta di (confortevole) fissità della retorica che lo racconta. Non c’è niente di male se la retorica scelta (riconosciuta) è, come nel caso in questione, il risultato di studio e applicazione. Quello stesso racconto parla di sé e della propria America, e lo si comprende, prima ancora che nelle parole (che sono ovviamente selezionate), nell’impianto strumentale: dal quale non si può scappare. L’insieme di chitarre (che si alternano tra elettriche, acustiche e slide), basso, batteria e pianoforte, con qualche apporto di violino, parla da solo e non lascia spazio a fraintendimenti: indica la strada di un paese musicale che, indagando le proprie radici (e frugando nelle proprie tasche), ritrova – senza affaticarsi in slanci tecnici ed estetici – un linguaggio efficace e convincente. La parabola di Jono Manson è costituita da questa consapevolezza. Certo – come noi italiani sappiamo – ha saputo gettare il suo sguardo anche oltreoceano, lavorando, ad esempio, con la Gang dei fratelli Severini (i quali hanno speso, in più occasioni, parole di grande ammirazione nei suoi confronti), Massimiliano Larocca, Massimo Bubola, Andrea Parodi ed Edoardo Bennato. Ma la sua scena è quella americana del folk e del rock, senza fiocchi e orpelli (le note stampa di promozione dell’album insistono sulla sua esibizione al Madison Square Garden, tra Bruce Springsteen, Joan Beaz e Taj Mahal, in occasione dei festeggiamenti per i novant’anni di Pete Seeger). Anzi, in alcuni casi si è spinto più a fondo nella sottrazione, aderendo, in modo più evidente, ai principi basilari del rock-blues, collaborando, tra gli altri, con T-Bone Burnett, Ray Wylie Hubbard e Terry Allen. Insomma, l’album ci piace e ci colpisce proprio nella sua esemplarità, nella coerenza degli intenti e nella franchezza con cui le affinità sono messe in ordine. Indiscutibilmente semplice e irriducibilmente chiaro, uno dei brani che più lo rappresentano è “No new kind of blue”, scritta con John Popper, cofondatore e cantante dei Blues Travelers: siamo in sospeso tra slide e armonica (in pieno New Mexico), con incursioni di chitarra trillante su una base semifissa di batteria e basso. Le voci, quando cantano all’unisono, sono stupende, avviluppate in un’armonia west-folk sicura, schietta, perentoria. Gli slanci migliori si trovano nelle ballad come “On the downlow” e “Make it throuh to spring”, entrambe morbide e ampiamente melodiche, sebbene interpretate in modalità differenti. Ma nella collaborazione Jono trova, probabilmente, la dimensione più congeniale. Come in “Alone”, con David Barkeley, nella quale quest’ultimo – cantautore “appartato” della scena indie americana, con frequentazioni importanti con, tra gli altri, Billy Bragg, Ray Lamontagne e Nickel Creek – apporta un’intensità più diretta e, allo stesso tempo moderata, intima. Se, in questo quadro di collaborazioni, il brano che emerge sopra agli altri è sicuramente “Timberline” – in cui compare Trevor Bahnson, cantautore e interessante chitarrista, con tocco semplice e sicuro – la prova più avvincente che ci regala “Stars enough to guide me” è “Late bloomer”, cantata stupendamente con Eliza Gilkyson: essenziale e profonda, avvolgente, vuota e sospesa. Come un suono soffiato, un leggero e persistente respiro. 


Daniele Cestellini

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