Indaco – Due mondi (AlfaMusic, 2022)

Ottimo album il nuovo degli Indaco, la formazione world-musicale italiana per eccellenza. “Due mondi” risarcisce gli amanti del genere, così come lo abbiamo conosciuto qualche decennio fa, riconfigurandolo, oggi, nel quadro di un’interessante complessità storica. L’aspetto forse più rilevante di questo album è che la formazione che lo ha prodotto non taglia i ponti con il passato degli Indaco – sperimentale, colto, inclusivo – e, in questa prospettiva, dispone in ordine tutti gli elementi di una narrativa musicale tradizionalmente world. Ne è un esempio lo strumentario, inteso come plausibile convergenza di strumenti suonati (sia etnici che non: bouzkouki, mandola, chitarre, basso elettrico, sassofono, duduk, fisarmonica, arpa, batteria e percussioni) e temi narrati, o luoghi raccontati: Medio Oriente e India, sud Italia e Napoli. D’altronde, il ponte c’è: Mario Pio Mancini, il cui bouzouki intreccia note bellissime in molti passi dell’album, figura tra gli iniziatori di questa storia speciale, inaugurando, con Roberto Maltese, un progetto musicale fin da subito composito (etnico e jazz?), intorno al quale hanno gravitato (e continuano oggi a gravitare) grandi musicisti. Insomma, scorrendo gli undici brani in scaletta riconosciamo le direttive di un’ispirazione trasversale e felicemente aperta, che non si contraddice mai e che riconduce le esecuzioni in uno spazio preciso. Uno spazio composito ma regolare, regolato da una visione musicale che, come dicevo prima, riporta in superficie una world music costruita sugli elementi che più ne hanno contraddistinto la genesi, attraendo l’interesse di molti dei migliori musicisti contemporanei (sia italiani, come nel caso di questa band, sia internazionali). Dico questo perché, nel corso degli anni, il genere in questione (come è naturale) ha irradiato molteplici riflessi. Sostenendo, da un lato, un nucleo sperimentale che ha portato a risultati interessanti (come delle epifanie, che hanno stimolato soluzioni inaspettate) ma, dall’altro lato, giustificando (come se, appunto, la sua conformazione polimaterica lo potesse giustificare) sovrapposizioni spesso molto forzate e poco significative. Gli Indaco si muovono indubbiamente nello spazio più funzionale di questo scenario musicale. E l’impressione più netta che si ha ascoltando “Due mondi” è che percorrano, con consapevolezza e senza inerzia, le migliori potenzialità di un assetto di scrittura permeabile a influenze culturali ed espressive morfologicamente diverse. Lo si comprende dalle strutture musicali dei brani, che ci appaiono ordinate pur nella compresenza di elementi complessi e diversi: a partire da “Kalì”, il primo brano in scaletta, in cui risuona un armonia perfetta tra una costruzione ritmica quadrata (basso, percussioni e batteria) e un andamento melodico molto fluido e sovrapposto, con richiami circolari tra la voce limpida di Valeria Villeggia, la sua arpa, il sassofono, le chitarre, il bouzouki e i cori. Enzo Grananiello – che interviene in “Sente e tace”, il brano appena successivo, firmato come il precedente da Jacopo Barbato – punta i piedi in un dialetto napoletano ancora più profondo, riuscendo a trascinare il brano in una specie di unico melisma. Questo brano è tra i migliori dell’album, sebbene la sua struttura sia più libera e (apparentemente) estemporanea, per gli splendidi interventi della chitarra, che si intrecciano a meraviglia con le reiterazioni dei cori. “M’ha criete Dije” è il brano che porta, invece, Graziano Galatone – secondo ospite dell’album: oltre alla bellezza del testo, emerge l’intreccio delle voci, nel quadro di una costruzione melodica avvolgente e, allo stesso tempo, divergente. Il brano riesce, però, dentro la sospensione totale di un andamento etereo, ad allineare tutti gli strumenti, che si compenetrano con grazia ed equilibrio. 


Daniele Cestellini

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