A due anni di distanza dal formidabile “WE4”, Fabrizio Bosso è tornato in studio per incrociare nuovamente gli strumenti con il suo quartetto, composto da Julian Oliver Mazzariello (pianoforte e tastiere), Jacopo Ferrazza (contrabbasso e basso elettrico) e Nicola Angelucci (batteria) con loro ha riletto nove brani dal songbook di Steve Wonder. Ha preso vita, così, il pregevole “We Wonder”, presentato lo scorso 7 gennaio all’Auditorium Parco della Musica in un memorabile concerto con la partecipazione speciale di Nico Gori, nel quale il trombettista piemontese ha catturato magistralmente tutta l’energia e l’intensità del songwriting del cantautore americano, esaltandone la forza espressiva delle sue ballad, gli addentellati con il soul e il R&B, per declinare tutto in una elegante e raffinata chiave jazz. Abbiamo intervistato, Fabrizio Bosso per farci raccontare questo nuovo progetto discografico non senza soffermarci sulle peculiarità del suo approccio stilistico alla tromba.
Com’è nata l’idea di rileggere il repertorio di Stevie Wonder in chiave jazz?
Sono cresciuto con la musica di Stevie Wonder. Le prime note le ho suonate sui suoi dischi come facevo con quelli di Gino Paoli, Ornella Vanoni e Bruno Lauzi e ho proseguito anche quando ho cominciato ad approcciare il jazz e l’improvvisazione. Insomma, è stata una bella scuola, ma quando sono cresciuto musicalmente mi sono reso conto pienamente della genialità di questo artista, non solo come cantante, ma proprio come divulgatore della musica in generale. Trovo incredibile come lui abbia la padronanza e il
controllo di tanti generi musicali e riesca, comunque, a tirare fuori il suo stile, il suo modo di cantare, di suonare e di arrangiare. Se poi si va ad esaminare a livello armonico i suoi brani, ma qui entriamo più nel tecnico, ci si accorge come erano geniali già i primi brani che ha composto. Il lavoro che abbiamo fatto con il quartetto per portare la sua musica nella nostra zona di confort non è stato molto complesso perché armonicamente i suoi brani sono molto jazz e sono molto vicini al nostro mondo. Senza contare, poi, le melodie, che sono fantastiche. Abbiamo lavorato più che altro sul fatto di cercare delle strutture che ci potessero permettere di aprire di più sui soli. Quindi un brano abbiamo fatto diventare direttamente un blues e altri ci abbiamo lavorato ritmicamente, però, per quanto riguarda la musica, le armonie e le melodie e non c'era assolutamente niente da fare perché era già perfetto quello che ha scritto lui.
Il quartetto con cui hai inciso “We Wonder” è protagonista di “WE4” del 2020 album che spiccava per la perfetta intesa e l’interplay serrato. Come è nata questa formazione?
La forza di questo quartetto è data dal fatto di aver voglia di suonare e costruire qualcosa insieme. Io più vado avanti e nei miei gruppi, più cerco di abbandonare l'individualità al fatto con quel protagonismo del protagonismo del leader, che deve per forza fare magari soli più lunghi o fare la cadenza iniziale, quella finale, e prendere più applausi. Credo che la musica possa arrivare in maniera molto più convincente se si suona tutti insieme. Quindi da un po’ di anni cerco di responsabilizzare i musicisti che suonano con me e farli sentire leader come sono leader io. D'altronde, anche il disco prima di questo abbiamo scritto diversi brani tutti insieme. Mi piace questa idea, però certamente questo lo puoi ottenere solo se c'è un grande feeling anche a livello umano. Secondo per me è sempre più importante questa cosa suonare con musicisti che stimo non solo a livello musicale, ma anche per il modo che hanno di vivere, di relazionarsi. Penso che tutto questo faccia la differenza sul palco. Io ho un poi questa visione che si sta in tour, si viaggia tutti insieme. Quando si arriva sul palco si cambia solo il mezzo di comunicazione: non usiamo più la parola, però continuiamo a dialogare tra di noi, coi nostri strumenti. Alla fine, questa è la cosa che ci viene più facile, cercando di trasmettere il nostro dialogo a chi ci ascolta così.
Come dicevo prima armonicamente almeno sui temi non abbiamo toccato quasi niente, però è normale che un pianista o un bassista mette un rivolto. Abbiamo lavorato più altro sulle strutture armoniche per fare poi soli, e in quel caso abbiamo fatto qualche modifica ma solo per portare il brano nel nostro territorio. Negli ultimi dischi che ho fatto sempre cercato di immaginarmi già una scaletta per i concerti live, perché negli anni mi ha capitato diverse volte di registrare dei brani di cui ero contento di tutto e poi non riuscivo mai a suonarli dal vivo, perché non avevo spazio in scaletta o perché non mi convincevano del tutto. Nel caso di “We Wonder”, quando siamo andati in studio, abbiamo anche provato già a pensare come potevano funzionare queste composizioni dal vivo perché andiamo a fare un concerti jazz e suoniamo le melodie fantastiche di Stevie Wonder, però bisognava creare degli spazi per improvvisare. Dal punto di vista ritmico abbiamo fatto alcuni cambiamenti sostanziali come in un brano che abbiamo fatto diventare second line anche se nella versione originale non era certo così. In altri casi siamo andati a portare i brani nei territori di John Coltrane o come nel caso di “Another Star” che ha una ritmica molto alla Elvin Jones.
Con quale criterio avete scelto i brani da rileggere?
Non ho deciso da solo, ma ci siamo messi tutti a lavoro per scegliere i vari brani su cui lavorare. Julian Oliver Mazzariello, ad esempio, ha armonizzato “Visions” ma l’idea era quella di poter far ascoltare le melodie meravigliose di Stevie Wonder per poter poi suonarci sopra. Non potevamo non fare “Overjoyd” o “Sir Duke” che abbiamo immaginato in una vesta più frizzante, “Moon Blue” siamo andati a pescarla da uno degli ultimi dischi, sebbene abbia già qualche anno. Insomma, chi aveva un’idea la lanciava, ma abbiamo deciso velocemente, anche se la musica di Stevie Wonder è tale da poter far altri cinquanta dischi. Siamo felici di aver scelto questi brani perché dal vivo funziona tutto molto bene.
Avete utilizzato accorgimenti particolari nella registrazione di “We Wonder”…
Abbiamo registrato tutto in diretta, ma in stanze separate, mentre il precedente lo abbiamo inciso tutti insieme nella stessa sala. Personalmente registro con un microfono diretto sulla tromba ed è quello che uso abitualmente anche dal vivo, così come anche nei dischi con Renato Zero, perché mi trovo bene e trovo subito il mio suono.
“We Wonder” è un disco che nasce per essere suonato dal vivo…
Tutta la musica che registro nasce con l’idea non solo di fare un bel disco ma anche di andarla a suonare dal vivo con i miei gruppi. Certo a volte mi capita di fare dei turni con altre formazioni per suonare cose che non farò dal vivo. Il concerto è, per me, è senza dubbio il momento che mi da più sicurezza e conferme che vale la pena continuare a fare quello che stiamo facendo. Nel caso di “We Wonder” la strada è certamente più spianata perché suoniamo temi che la gente riconosce e, se tra il pubblico c’è qualcuno che non ha mai ascoltato jazz c’è più possibilità di avvicinarlo a questo mondo.
Sul palco quanto spazio è riservato all’improvvisazione?
C’è ovviamente molto spazio perché quello è il nostro mondo. Ritengo sia fondamentale suonare bene una melodia, entrandoci prima di tutto noi che la stiamo suonando per poi far entrare il pubblico. A volte alcuni musicisti jazz snobbano la melodia perché l’obiettivo è quello di andare a far sentire quanto sono bravi a improvvisare però, come dicono i grandi solisti americani, è nell’esposizione di una melodia il musicista dimostra il proprio valore e forse ancor più nell’improvvisazione. La responsabilità si fa più grande andando a suonare delle canzoni dove ci sono i testi anche molto belli e rileggerle senza il mezzo della parola. Personalmente lavoro molto sulle timbriche, cerco di sfruttare le potenzialità della tromba.
Come si è sviluppato, nel corso degli anni, il tuo approccio alla tromba?
È molto interessante questa domanda perché mi consente di far conoscere meglio il grande lavoro che c’è dietro a tutto quello che facciamo nei dischi e sul palco. Certo tutto questo ad un giornalista può interessare poco, ma ogni volta che prendo lo strumento in mano e faccio uscire delle note questo può
cambiarmi la giornata. Il lavoro che faccio sul suono è continuo e l’obiettivo è trovare quello che ci gratifica e ci faccia sentire bene, un suono che si possa usare per suonare delle melodie o altre cose. Per altro, la tromba è uno strumento molto fisico che richiede grande attenzione al modo di respirare, a come si soffia e anche avere le labbra un po’ più gonfie può cambiare il suono in un certo modo. Quando non si è soddisfatti del proprio suono diventa difficile suonare una melodia, non parliamo di suonare musica bella perché diventa tutto ancora più complesso.
Come hai indirizzato il suo lavoro sulla riconoscibilità del timbro della tua tromba?
Non mi sono mai messo lì a cercare un suono per differenziarmi dagli altri, ma anzi ho sempre continuato e continuo ancora ad ascoltare trombettisti con un suono che probabilmente mi ha fatto crescere, partendo da Clifford Brown per arrivare a Wynton Marsalis, passando per mille altri. Devo dire che resto sempre molto colpito e mi gratifica tanto sapere che qualcuno riesca a cogliere una originalità nel mio suono e che questo sia riconoscibile. Tuttavia, non ci ho mai lavorato effettivamente perché lavoro per avvicinarmi a quei trombettisti che mi piacciono, ma poi c’è quello che ci si mette dentro a differenziarci. Io ci metto sempre la qualità perché la tromba è uno strumento in cui facilmente si è discontinui nel rendimento e quindi è necessario che il suono mi appaghi affinché riesca a suonare tutto quello che mi passa per la testa.
Abitualmente suoni con organici differenti dal duo alla big band. Quale tipologia di formazione preferisci?
È difficile dare una risposta perché le varie formazioni ti portano anche a suonare in maniera diversa, ma diciamo che il quartetto è forse quello che mi permette di tirare fuori tutte le mie sfaccettature, la mia tecnica e l’approccio allo strumento anche a livello musicale. Il duo mi permette di sfruttare un'altra timbrica della tromba che nel quartetto parte un po’ più alta, nella big band ti trovi a fare dei soli diversi perché ti trovi a fare delle cose con meno tempo a disposizione. Mi piacciono tutte queste situazioni e, durante l’anno, devo dire la verità ho bisogno anche di variare, di fare suonare situazioni diverse.
Concludendo, c’è qualche nuovo progetto in cantiere?
Dal punto di vista discografico non c’è nulla nell’immediato perché ho in programma diversi concerti sia con il quartetto di “We Wonder” sia con Julian in duo. Forse faremo un album tributo a Pino Daniele con Julian con il quale abbiamo fatto questo concerto a luglio 2022 che era stato commissionato da Ernesto Assante. Abbiamo fatto anche un video che sta andando molto bene e abbiamo in programma già due concerti. Visto che funziona molto potrebbe essere questa una delle prime cose. In ogni caso, vorrei fare quanti più concerti possibile con “We Wonder” perché come sai ho avuto questo stop di tre mesi e mezzo che non mi ha permesso di presentare questo disco nel modo che avrei voluto.
Fabrizio Bosso Quartet – We Wonder (Warner Music, 2022)
Quando nel settembre del 1976 Stevie Wonder diede alle stampe “Songs In The Key Of Life” fu chiaro che quello sarebbe stato il disco con il quale avrebbe scritto il suo nome nella storia della musica, nonostante album come “Talking Book”, “Innervisions” e “Fulfillingness' First Finale” ne avessero fatto già uno degli artisti più famosi in ambito pop e R&B. L’accoglienza da parte di pubblico e critica fu straordinaria perché il disco spaziava attraverso stili e approcci musicali differenti, oltre ad essere caratterizzato da testi densi di contenuti sociali ed autobiografici. A completare il tutto fu il grande successo commerciale che lo proiettò ai vertici delle classifiche mondiali trainato dai singoli “I Wish” e “Sir Duke” e i ben sette Grammy Award, tra cui quello più prestigioso come “Album dell’anno”. Cominciò, così, una fase artistica nuova da cui preso vita altri lavori pregevoli; tuttavia, a livello compositivo ed ispirativo restò insuperato. Quei ventuno brani catturavano la sua visione musicale, un universo sonoro ricco che rispecchiava la black music nella sua complessità e nel quale convergevano jazz, soul, funk, R&B e pop. Proprio l’epocale “Songs In The Key Of Life” è al centro di “We Wonder” album con il quale Fabrizio Bosso ha reso omaggio al songbook di Stevie Wonder riportando alla luce le profonde connessioni con il jazz che caratterizzavano il suo approccio artistico. Complici di questa nuova avventura discografica del trombettista piemontese è il suo quartetto composto da Julian Oliver Mazzariello al pianoforte, Jacopo Ferrazza al contrabbasso e Nicola Angelucci alla batteria, a cui si è aggiunto in tre brani Nico Gori al sax e clarinetto. Registrato tra il 4 e il 5 aprile 2022 presso il Load Recording Studio, di Roma, l’album mette in fila nove brani, tra cui un inedito, nei quali le inconfondibili architetture armoniche e melodiche di Stevie Wonder sono la base di partenza per una originale ricerca musicale e timbrica che si apre all’improvvisazione. Durante l’ascolto a spiccare sono tanto la peculiare cura riposta negli arrangiamenti, quanto il perfetto interplay che caratterizza il dialogo tra i quattro strumentisti con la tromba di Fabrizio Bosso a tessere eleganti linee melodiche. Ad aprire il disco è il trascinante swing di “I Wish” spinto dal dialogo tra tromba e pianoforte, con l’impeccabile lavoro della sezione ritmica a sostenere il tutto. Si prosegue con l’evocativa ballad “Moon Blue” che arriva da “A time to love” del 2005 e in cui brilla un raffinato solo di tromba, mentre la soffusa “My cherie amour” ci porta indietro nel tempo al disco omonimo del 1969 con il tema esposto in forma dialogica con Nico Gori al clarinetto. Ritroviamo quest’ultimo al sax nella successiva “Another Star”, riletta in chiave modale, con il pianoforte di Mazzariello a costruire una cornice sonora swingante in cui si inseriscono le voci melodiche. La gustosa ballad “We Wonder”, composta a quattro mani da Bosso e Mazzariello, ci introduce alla rilettura in chiave blues della ballad “Visions” dall’album “Innervisions” del 1973 nella quale giganteggia la tromba di Bosso suonata con la sordina per lasciare spazio ai soli di pianoforte e contrabbasso. Il singolo “Overjoyed” tratto da “In square cicle” del 1984 è giocata sulla trama ritmica costruita dal piano elettrico e dal basso elettrico di Ferrazza su cui si innesta la tromba di Fabrizio Bosso. Il vertice del disco arriva con la travolgente “Sir Duke” che ci consegna un altro eccezionale duetto tra il trombettista piemontese e Nico Gori prima del finale con “Isn't she lovely” in proposta in una versione destrutturata nella melodia ma nella quale si coglie la capacità del trombettista piemontese di fare proprie le melodie di Stevie Wonder proiettandole nel suo universo musicale. “We Wonder” è, dunque, un album pregevole da ascoltare con grande attenzione per cogliere a pieno l’originalità con la quale Fabrizio Bosso ha riletto il repertorio del cantautore americano. Ancor più è un disco da apprezzare dal vivo dove questo quartetto mette in luce tutta la sua vitalità e forza espressiva.
Salvatore Esposito
Foto di Roberto Cifarelli (1, 2, 3), Andrea Boccalini (4, 5) e Sandra Corrado (6)