Majid Bekkas – Joudour (IGLOO Records, 2022)

Tra gli artisti marocchini, Majid Bekkas è sempre garanzia di qualità, sperimentazione, innovazione e di comunicazione interculturale. L’artista è specializzato in musica tradizionale gnawa ma anche in altri stili musicali nordafricani e arabi. Tuttavia, come possiamo sentire nei suoi lavori precedenti, Majid non è estraneo a musiche da altre parti del mondo. Tra queste spicca ovviamente il jazz – forte fonte di ispirazione e presenza praticamente costante nella discografia dell’artista – ma non mancano contaminazioni asiatiche e sudamericane. “Joudour” è il fiore all’occhiello del dialogo musicale che Bekkas inscena dagli albori della sua carriera. Il disco bilancia con delicata attenzione ritmi e sonorità gnawa, improvvisazione jazzistica, e svariati stili la cui combinazione crea un disco sorprendentemente variegato che però non perde mai la bussola. A primeggiare tra queste influenze è la musica dei jeli (o griot) Mande dell’Africa Occidentale, prima sia per quantità di brani in cui emerge ma anche letteralmente la prima ad apparire nel disco che si apre, appunto, con la kora. Il rapporto tra musica gnawa e mande è superficialmente evidente: il guembri, il liuto basso capostipite della musica gnawa, presenta notevoli somiglianze con altri liuti più piccoli, come lo ngoni dei Bambara, l’akonting dei Mandinka e lo xalam degli Wolof. Ciò che forse è meno noto è che, come la tratta degli schiavi ha portato questi liuti ad evolversi nel banjo in America, la stessa disgraziata pratica ha portato gli gnawi, e con loro lo strumento, in Nord Africa. Tra queste terre separate dal Sahara c’è quindi una connessione ancestrale, riflessa dalla fluidità ritmica che sovrappone o alterna suddivisioni binarie e ternarie, e dalle tessiture che risultano dalla particolare tecnica con cui questi liuti vengono suonati (clawhammer). L’ensemble di sei elementi è raggiunto da un totale di sette ospiti. La formazione è ovviamente capitanata da Bekkas che, oltre a cantare e comporre, suona guembri, ngoni, oud, chitarra, buzuki, kalimba e balafon. Lo affiancano Manuel Hermia (sax e bansuri), Michael Hornek (piano), Childo Tomas (basso), Khalid Kouhen (percussioni) e lo stellare Karim Ziad (batteria). Tra gli ospiti troviamo invece Mbemba Diabate (kora), Bouhssine Foulane (ribab), Adil Chorfi (ney), Mustafa Antari (riq e darbuka), Biboul Darwiche (congas), Gnaoua Chaouki e Marylène Ingremeau ai cori. I brani si modellano su stili specifici contaminati in vari modi. “Imta Ya Mama” e “Allal” richiamano più fortemente la matrice gnawa con gli intrecci ritmici di guembri, percussioni, batteria e, in particolare, qraqeb, gli idiofoni caratteristici della musica gnawa, che sovrappongono ritmi ovoidali al resto della sezione ritmica. “Ana Majdoub” e “Aferdou Dance” mantengono l’anima gnawa ma la sporcano di jazz col secondo brano, che enfatizza la solistica in un botta e risposta di soli di diversi strumenti, inclusi sax, balafon, ribab e batteria. Abbiamo poi l’ormai inevitabile (e a dirla tutta già visto in altri dischi di Bekkas) occhiolino alla categoria commerciale dell’african blues, che ha visto artisti di diverse parti d’Africa applicare leggere modifiche a musiche tradizionali ispirandosi al blues. L’etichetta di “blues” è ormai così popolare che spesso ci si dimentica del minimo contributo del genere a questi ibridi, solitamente (come in questo caso, eccezion fatta giusto per il canto) quasi completamente basati su musiche africane. La stessa idea ritorna in “Desert Swing”, brano invece pensato più come strumentale di jazz nordafricano, così come la successiva “Zagora Palms”. “Joudour” è un disco eccellente che colpisce su più piani. A livello prettamente musicale dimostra la versatile virtuosità di Bekkas e della band, capaci di muoversi sinuosamente tra diversi stili che spesso hanno poco da condividere. L’alta tecnicalità della solistica e degli intrecci ritmici crea un connubio fantastico che ogni appassionato di jazz e fusion saprà apprezzare. Il disco è in perfetto equilibrio, calibrato alternando momenti cantati e strumentali e manipolando la scaletta per creare un mix che non stanca ma che non è, allo stesso tempo, ripetitivo. Bekkas esplora a fondo le radici culturali e sociali che connettono il Marocco e gli gnawa a culture circostanti. Se la base è la multiculturalità marocchina evidenziata da musica araba e gnawa, da un lato si riconnettono le radici storiche degli gnawa in Africa Occidentale, dall’altro si esplorano gli orizzonti mediterranei e i contatti con l’Europa. A chiudere questo viaggio circolare è la musica afroamericana, che torna a modificare le musiche da cui le stessa è derivata. Sarà pur vero che di questi tempi sono sempre più gli artisti che costruiscono dischi su queste circolazioni, pochi però lo fanno bene come Majid Bekkas, che a questo giro ci ha probabilmente regalato il suo miglior disco finora. 


Edoaro Marcarini

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