Operazione inedita quella di andare a pescare connessioni musicali e testuali di alcune canzoni di Leonard Cohen nel vasto mare del Rinascimento Francese, immergendosi in un flusso di immaginarie onde che conduca due fiumi lontani ad unire le loro acque. L’ha realizzata l’Ensemble di Joel Frederiksen (direzione, voce e liuto) con Domen Marinčič e Hille Perl (viole da gamba) e Emma-Lisa Roux (liuto e voce). In questo ennesimo tributo al cantautore ebreo-canadese la voce soprano della Roux fa da contraltare al basso profondo di quella di Frederiksen.
L’artista di Monaco di Baviera, che è stato in passato anche collaboratore di Jordi Savall, è profondo conoscitore della musica dei liutisti inglesi e dei compositori barocchi italiani. L’“aria di corte” per voce e liuto era diffusa in Francia dalla fine del XVI e per tutto il XVII secolo, si tratta di una composizione strofica o polifonica nella quale sovente venivano interpretate due versioni all’interno dello stesso pezzo. Già dieci anni fa lo stesso Ensemble tedesco, con Timothy Leigh Evans (tenore e percussioni) e Axel Wolf (tiorba e arciliuto) in sostituzione delle due musiciste, aveva pubblicato un tributo sentimentale all’ultimo disco di Nick Drake dal titolo “Requiem for a pink moon” nel quale le tristi canzoni dello schivo cantautore di Tanworth-in-Arden venivano rivisitate in forma elisabettiana (anche se il progetto era originariamente nato su basi differenti). Evidentemente Joel Frederiksen è attratto da figure capaci di declinare il linguaggio della propria malinconia in tutte le sfaccettature del loro intimo e anche questa volta la sua ricerca ha portato buoni frutti. L’iniziale “Suzanne” (1968) si ritrova avvinghiata con “Susanne un jour” di Orlando di Lasso (Roland de Lassus o anche Roland de Lattre) (1532-1594), che in gioventù ebbe a musicare le parole di Petrarca e Ariosto. Nel testo del geniale compositore polifonico fiammingo, celebrato come l’”Orfeo del Belgio”, Susanne mostra d’essere “triste e sconfortata” di fronte ai tentativi di forzare la sua risoluta castità. Per la sua vita avventurosa e nomade, questo artista che padroneggiava svariate lingue, padre di sei figli, di cui tre musicisti, si può assolutamente definire a pieno titolo “europeo”. La sua fama di compositore di oltre duemila opere articolate in sessanta volumi, abbraccia tutti i generi musicali della propria epoca, compresa la musica popolare, i madrigali, le villanesche, le canzoni e i mottetti. Una nota biografica curiosa è che la sua incantevole voce gli costò in giovanissima età, ben tre tentativi di rapimento da parte di melomani tra cui uno ad opera di Ferdinando Gonzaga, viceré di Sicilia. “A thousand kissess deep” (2001) va a braccetto invece con l’incitamento all’amore di “Un jour l’amourreuse Silvie” del francese Pierre Guédron (c.1570-1595- c.1620), altro specialista delle “air de cour” profane e inizialmente membro della cappella del cardinale di Guisa. Guédron, divenne poi sovrintendente della musica del re, specializzato in quella vocale per i balletti di corte durante sia il regno di Enrico IV che di Luigi XIII°. Nella canzone rinascimentale la ragazza sollecita l’amato pastore addormentato ad alzarsi e a baciarla ardentemente mentre intorno è ancora “nascente aurora” proclamando l’assoluto potere di un bacio come rimedio a qualsiasi torto. L’addio all’amante cantato da Cohen in “Hey, that’s no way to say goodbye” (1968) viene accoppiato poi alla canzone di separazione “Adieu mes amours” di Josquin des Prez (Josquin Desprez, anche Des Prés o Desprès, in Italia: Giosquino, Dascanio o Iodocus Pratensis) (c.1440/1455-1521) le cui trame sonore intessono anche la psicanalitica lirica coheniana che la segue “Famous blue raincoat” (1971). All’interno della sua composizione il grande autore franco-fiammingo, definito talvolta il “Michelangelo della musica” e uno dei più rinomati melodici di tutta la musica occidentale, gioca con la rima del doppio significato della parola francese “argent” (soldi-argento): “non ho più argento, vivrò di vento”. Nel finale la frase del ritornello “Addio amori miei” prende il posto della firma L. Cohen che concludeva l’originale lettera in musica di “Songs of love and hate”. Des Prez compì numerosi itinerari tra Francia e Italia al seguito di eminenti personaggi storici, fu cantore del duomo di Milano, della cappella pontificia a Roma e maestro del coro di varie cattedrali francesi. “Dance me to the end of love” (1984) canzone metaforica che narra del dramma dell’entrata degli Ebrei nelle criminali camere a gas naziste, evolve musicalmente in una suite di danze: un preludio, una pavana e una gagliarda riprese dal primo libro di tablature per liuto pubblicato in Francia nel 1529, a cura di Pierre Attaingnat. A fianco della danza greca composta da Cohen compare inoltre al termine quella anonima inglese “Devil the care” risalente probabilmente al XVII secolo. Segue “Bird on a wire” (1969), abbinata ai due anonimi brani musicali “Le rossignol” e “The tuneful nightgale”, entrambi tratti dal volume per musica per liuto del 1616 di Jane Pickering. La conclusione della storia d’amore cantata in “So long Marianne” (1968) viene quindi unita a “Le phoenix” di De Vincent (?-1650), anche se non si ha certezza sia effettivamente lui l’autore delle parole de quest’antica canzone “La vecchia fenice muore al sole di una bella fiamma, tutti vogliamo quando siamo vecchi, morire innamorati negli occhi di una donna, che felicità morire innamorati!…” La definitiva canzone di Cohen “You want it darker” (2016) viene mescolata dall’Ensemble con il lamento sul proprio destino avverso di “Quand me souvient de ma triste fortune” creata dal canonico maestro di coro e della cappella musicale di Carlo V, Thomas Crecquillon (c.1505/1510-c.1557). Il compositore fiammingo, famoso per i suoi motetti, fu determinante per lo sviluppo del modello della forma “canzone” a venire, apportando notevoli innovazioni stilistiche, come, ad esempio, la ripetizione di una frase nei finali. “Quando mi ricordo del mio triste destino, di aver perduto il conforto dei miei occhi, considero la mia grande sfortuna, giorno e notte devo dire – ahimè, che triste destino!” Infine Hallelujah” (1984) viene immersa totalmente nelle sonorità di “The evening hymn” del compositore barocco inglese Henry Purcell (1659-1695) che è l’opera di apertura della raccolta del 1688 “Harmonia Sacra” a cura di Henry Playford. Così come nel caso della canzone di Cohen, che tutto è tranne la preghiera che suggerisce ironicamente il suo titolo, anche la composizione di Purcell non era certamente un brano destinato alla rappresentazione liturgica. Quest’ultimo scrisse le sue prime opere fin dall’età di undici anni, per venire nominato a venti “compositore del re per i violini” oltre che organista dell’Abbazia di Westminster e quindi a ventitré, della cappella reale. Scrisse febbrilmente un’enorme quantità di “anthems” e brani che rasentavano la perfezione in tutti gli stili nei quali si cimentò e nonostante la brevità della sua esistenza (trentasei anni appena), viene ancor oggi considerato il più grande musicista inglese della storia.
L’anima delle canzoni di Leonard Cohen così ripiegata su se stessa, a fondo indagata dal suo autore, con tutto il rigore e il pudore di cui era capace, è figlia di un codice misterioso che appare fin dalla prima nota. Se viene rivisitata con la grazia e la maestrìa di uno studioso competente e rispettoso come Joel Frederiksen, può far passare in secondo piano qualsiasi lontananza musicale. Ma anche le “lontananze” esistono per essere sconfessate: per esempio lo spirito compositivo di Cohen, a ben vedere, non era poi così diverso da quello di Orlando di Lasso, nato quattrocento anni prima di lui. Entrambi artisti inquieti e illuminati, perfettamente a proprio agio sia nei territori profani quanto nel misticismo più convinto. Tutt’e due ispirati da profonda forza interiore plasmata dall’onnipresente contrasto tra la severità di una fede rigorosa e una poetica curiosa ed aperta al contemporaneo, come ben testimoniato dall’intera opera di entrambi. All’interno di quella di Orlando di Lasso le poesie d’amore avevano facoltà anche di arrivare da lingua volgare su testi sacri latini in forma di tropo e temi religiosi d’essere cantati su melodie profane. Argomenti sconvenienti, ambigui, se non addirittura osceni, potevano servire da “cantus firmus” in composizioni originali di alta ispirazione religiosa, la qual cosa, ovviamente, era assolutamente invisa al potere della chiesa rinascimentale.
Flavio Poltronieri