Guzheng, musica cinese, identità musicale e armonia umanitaria

Cenni storici 
Le prime concrete attestazioni relative allo strumento “zheng” a 12 corde risalgono al III secolo d.C. Il termine “zheng” venne spesso usato per designare strumenti diversi della stessa famiglia, come il “se” e il “qin”, quest’ultimo preferito per le attività intellettuali e meditative (era apprezzato da Confucio). Lo “zheng” era per lo più riservato alle musiche orchestrali di corte. Hou Jin, studioso del periodo “Han orientale” (25 d.C.-220 d.C.), ebbe a scrivere che il suono del “guzheng” «… toccava i Cieli in alto e gli Dei e gli spiriti in basso», segno che la simbologia dello strumento andava ben oltre gli aspetti puramente materiali e tecnici. Solo nel XIX secolo, hanno iniziato a distinguersi i suonatori solisti, con il diffondersi del virtuosismo espressivo, apprezzato fino ai giorni nostri anche in relazione agli usi ibridi e sperimentali. Ciò premesso, già a partire dal XIV secolo, a seconda dei contesti e delle scelte dei suonatori, lo strumento iniziò a essere realizzato con un numero variabile di corde, mentre il “qin” continuò (in prevalenza) a mantenere fissa la sua struttura di sette corde. Tale situazione si mantenne sostanzialmente stabile fino a metà del XX secolo. Instauratosi il nuovo regime, lo “zheng” continuò ad ottenere particolari attenzioni, mentre l’uso del “qin” venne progressivamente avversato, in quanto ritenuto simbolo musicale delle classi sociali sconfitte. A metà degli anni Sessanta, vennero introdotte alcune novità, portando il numero delle corde a ventuno (“guzheng” modello standard), per permettere di raggiungere l’estensione di quattro ottave. Inoltre, le corde di metallo vennero rivestite di nylon e venne introdotto un ponte curvo nella coda dello strumento, al fine di ottenere specifici effetti esecutivi, timbrici e melodici. A partire da questo periodo, lo strumento acquisì popolarità in virtù del suo repertorio moderno. Nei decenni successivi, sono stati perfezionati altri aspetti tecnici, riguardanti i meccanismi di accordatura e la regolazione dei ponticelli mobili. Nella sezione dedicata alla “cetra lunga” (“Storia degli Strumenti Musicali”, capitolo sull’Estremo Oriente), gli strumenti menzionati sono stati trattati dall’organologo Curt Sachs, il quale ha evidenziato che «… le cetre, chiamate erroneamente liuti dai traduttori, sono nominate per la prima volta in un’ode scritta intorno al 1100 a.C.». Lo studioso, impiegando una trascrizione fonetica differente da quella sin qui utilizzata, ha inoltre evidenziato che «ci sono molte varietà sia del “ch’in” che dello “shȇ”, ma presentano tutte caratteristiche comuni»
Sintetizzando. Finora abbiamo accennato a tre differenti cetre cinesi: “se”, “qin” e “guzheng”. Il “se”, nel corso dei secoli, è caduto in disuso. Il “qin” (o “guquin”) ha mantenuto le sette corde, ma ha perso molto della sua antica notorietà. Il “guzheng” ha conosciuto una crescente diffusione ed è acquistabile secondo vari modelli, con corde che possono variare da sedici fino a venticinque. Caratteristica comune tra i due ultimi strumenti è che vengono suonati orizzontalmente, tuttavia nel “qin” le corde sono pizzicate con le dita, mentre nel “guzheng” vengono utilizzate delle unghie artificiali (plettri), di preferenza applicate sulle dita della mano destra. La mano sinistra, invece, viene utilizzata per premere le corde al fine di ottenere effetti timbrici e piccole variazioni di altezze. Tuttavia la tecnica esecutiva non è univoca e varia in funzione del suonatore e del repertorio da eseguire. A partire dalla metà degli anni Quaranta del secolo scorso, sono apparsi in Cina i primi manuali strumentali (Zhēng Pǔ). I più noti sono quelli realizzati da Liang Tsai-Ping e da Cao Zheng. Quest’ultimo, nel 1948, iniziò a tenere corsi presso l’Accademia Nazionale di Musica di Nanchino. Negli anni successivi, simili corsi vennero aperti in diverse Istituzioni musicali di livello superiore, ma sempre con l’idea predominante di comporre ed eseguire nuova musica utilizzando strumenti del passato, di conseguenza lasciando la tradizione più antica in sordina e comunque quasi sempre riadattata alle più recenti esigenze politiche. 

Lo strumento, prospettive musicali e riflessioni umanitarie
Guardando alla struttura generale dello strumento è possibile evidenziare alcune sezioni ben collegate tra loro. La scatola armonica lignea con la tavola superiore, che può avere una o due dozzine di fori sonori a seconda del design; la testa (sormontata da un coperchio di protezione), utilizzata per la regolazione delle corde; i ponticelli mobili, le corde (come detto, di numero variabile a seconda dello strumento), il ponticello a “S”. Rispetto alle tecniche esecutive, gli studiosi hanno potuto rilevare sfumature che comprendono decine di variabili. Tra le peculiarità esecutive evidenziamo l’uso delle dita sulle singole corde, le dita piegate per ottenere effetti su singole corde o su più corde, il “glissando”, gli arpeggi, il tremolo, il portamento, il vibrato, lo smorzamento e diversi effetti percussivi. Se in passato la musica e la tecnica esecutiva erano tramandate oralmente (ascoltando, osservando e ripetendo), da alcuni decenni, soprattutto a seguito dell’introduzione dello strumento nei corsi di conservatorio, la scrittura ha preso piede, usando una grafia specifica per indicare gli effetti desiderati. Tuttavia la scrittura lascia sempre discreti margini interpretativi al suonatore, soprattutto per quanto attiene la timbrica.  In un successivo contributo ci concentreremo sui più noti esecutori dello strumento, facenti capo a differenti scuole, operanti nei diversi territori cinesi. Tra questi, ricordiamo, ad esempio, Wang Xunzhi, Cao Zheng, Lou Shuhua, Liang Tsai-Ping, Gao Zicheng, Zhang Yan, Cao Donfu, Cao Guifen, Su Wenxian, Luo Jiuxiang. Inoltre, riteniamo utile menzionare gli studi etnomusicologici condotti da Mei Han, docente e suonatrice operante tra il Canada e gli USA che, negli ultimi decenni, ha avuto modo di dare rilievo espressivo all’improvvisazione in ambito concertistico solista o in esecuzioni cameristiche anche sperimentali. La tradizione millenaria dello strumento prosegue, in varie forme, nel segno del rinnovamento. 
In merito, ci sia concessa una digressione personale, per evidenziare alcuni valori trasmessi dalla musica tradizionale e ricollegarci agli eventi della contemporaneità. Diceva Laozi che “la Grande musica è senza note”. Sentenza paradossale e pluri-semantica, ma che induce a riflettere sulla limitatezza umana, rispetto all’universo sonoro che comprende quello che i taoisti (non solo loro) definiscono il rapporto Terra-Cielo, la cui Musica cosmica sarebbe troppo articolata e profonda per essere udita. Tenendo anche conto di “dove e come” si è andato a incagliare l’uomo moderno, a nostro avviso, potrebbero essere maturi i tempi per una “renaissance” delle antiche conoscenze simboliche e filosofiche cinesi, capaci di rendere lo strumento musicale “tuning”, accordato armonicamente secondo antica concezione, tale da permettere idealmente ai suonatori di non essere considerati solo esecutori materiali o fenomeni esotici da palcoscenico, ma soprattutto interpreti in grado di far riflettere sui profondi significati - manifesti e nascosti - della vita. Significati sui quali, a seconda delle personali convinzioni, si potrà discutere e dissentire, ma che hanno reso peculiare - per millenni - l’identità e la conoscenza di numerosi Popoli, trasmettitori di un elevato grado di civiltà anche per quanto attiene il vivere sociale e il rispetto della Natura e delle sue leggi. Leggi che pochi e influenti monopolisti hanno ignorato, portandoci nella situazione odierna, seguendo il flusso di un globalismo affrettato e socialmente scriteriato, che ha reso di fatto il mondo, in pochi decenni, una polveriera da disinquinare. La musica tradizionale può concorrere a far riflettere criticamente sul presente, valorizzando la vita? La nostra risposta è affermativa. Tralasciando le inevitabili cause naturali di cambiamento climatico (astrofisiche, astronomiche e atmosferiche), chi vorrà modificare lo stato delle cose ambientali avrà molto da operare e da investire, cercando di alleggerire il peso di tante azioni egoisticamente scellerate contro la Natura. Pensiamo soprattutto ai giovani e all’ingiusta eredità che dovranno gestire. Un’eredità che i nostri più antichi predecessori (irrisi dai dotti razionalisti contemporanei) non avrebbero mai tollerato. Un’eredità che induce a serie e urgenti riflessioni collettive soprattutto sui valori umani e societari, sulla base dei quali sarà possibile armonizzare organiche scelte politiche che, inevitabilmente, richiederanno un coordinamento internazionale. Da alcuni decenni si sente insistentemente parlare di problemi ambientali ed è un bene. Decine sono state le Conferenze mondiali sul clima (COP) che, puntualmente, suscitano parecchio frastuono mediatico, ma alla fine dei conti sembra sempre di tornare al punto iniziale, visti i dati negativi sull’inquinamento globale. Tali dati, quando messi in comparazione, fanno sorgere il sospetto che il fiume di parole spese sul riscaldamento globale serva più che altro per far presa sulle masse, distogliendole dai veri problemi che riguardano l’inquinamento del pianeta e la protezione dell’ambiente. Chi scrive tende a pensare che il mondo sia stato ridotto in questo stato, soprattutto perché asservito al profitto (immediato e a ogni costo) nonché a oligarchie dell’alta finanza, le quali (come da più parti evidenziato) sono ormai riuscite a ottenere il dominio sulla politica. Non di rado, le ramificate multinazionali responsabili dei disastri ecologici sono le stesse che propongono estreme soluzioni di salvaguardia, con il risultato che a business riescono ad aggiungere ulteriore business. Di fronte a problemi articolati e complessi, nessuno possiede la bacchetta magica. Tuttavia le ingenti spese a favore della tutela dell’ambiente verranno vanificate se gli obiettivi da perseguire da parte delle scienze e delle tecnologie (dietro alle quali scorrono considerevoli interessi finanziari) non saranno opportunamente finalizzati, per il raggiungimento di precisi scopi umanitari, secondo benefiche e condivise logiche internazionali. Da parte nostra, vi è la convinzione (utopica?) che sia giunto il tempo dell’unione e della voce corale per il bene dell’umanità, superando isolati piagnistei. Un tempo nel quale potranno trovare rinnovati orizzonti i valori trasmessi dalla Tradizione e nel quale i musicisti più sensibili torneranno in prima fila per testimoniare il cambiamento, con passione e senza tornaconti personali, a favore dello sviluppo societario armonico internazionale, che significa lavoro, dignità, pace, libertà, amore, cultura senza barriere, spiritualità e tolleranza tra i Popoli, in sintonia con i ritmi della Natura. 

Paolo Mercurio

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