Cantare secondo il proprio sentimento: Amerigo Vigliermo, il Coro Bajolese e I canti Opera Omnia

Intervista con Amerigo Vigliermo
Il 24 febbraio 2023 in occasione della presentazione del progetto editoriale Coro Bajolese 1966-2018 I canti Opera Omnia di Amerigo Vigliermo e Gian Carlo Biglia, in programma negli incontri serali del venerdì del Centro Etnologico Canavesano, sono andato a trovare Amerigo a casa sua, a Bajo Dora, per un'intervista. Mi ha accompagnato Luca Percivalle, con il quale ho un sodalizio da tempo e condividiamo molte ricerche (abbiamo ad esempio  realizzato insieme il film documentario Lou soun amis | Il suono amico. Una tradizione musicale delle Alpi Occidentali – Valli di Lanzo). Percivalle si è occupato del video metre io dell'audio, di fotografie e ho condotto l'intervista.
Conosco Vigliermo da molto tempo, siamo amici ed è stato un vero piacere tornare a trovarlo. Seguendo il pensiero di Vigliermo, quando dice che le interviste non si preparano, non si organizzano con semplici domande, a parte qualche pensiero per iniziare l'incontro, si è trattato di un flusso di coscienza. Un racconto lasciato libero e ininterrotto. Vigliermo ha interiorizzato molto dalle persone che a sua volta ha intervistato nella sua lunga indagine sul territorio, acquisendo lui stesso una forma di teatralità, un raccontare appassionato, che incanta ed emoziona. Si è chiesto a Vigliermo di raccontarsi: la sua storia personale legata alla ricerca nel Canavese, il Coro Bajolese. E' significativo come la ricerca, la grande indagine sul Canavese che Vigliermo ha condotto per molti anni raccogliendo una straordinaria documentazione, sia iniziata dopo qualche anno di esperienza con il Coro (il Coro nasce nel 1966, la ricerca, in funzione del repertorio del Coro, nel 1969). C'è in questo una similitudine, con le dovute differenza, con l'esperienza di Cantacronache. Cantacronache, collettivo torinese di intellettuali, tra cui Emilio Jona, Sergio Liberovici, Michele Straniero che ha inizio nel 1958. I Cantacronache scrivono e cantano canzoni come protesta contro la canzonetta fine a sé stesse di Sanremo, quelle canzoni della cattiva coscienza o gastronomiche, per usare termini loro, per poi passare in un secondo momento ad interessarsi della ricerca sul campo: canti degli operai torinesi, canti di protesta (che in quegli anni erano praticamente censurati o ignorati dalla maggior parte delle documentazioni), canti di monda, canti della resistenza, canti della resistenza spagnola, della resistenza in Algeria e molto, molto altro ancora.
Il legame di Vigliermo con il Canavese, la sua terra, la sua gente, è indissolubile. Esprime verso questo territorio profonda ammirazione. Si è impegnato tutta la vita a valorizzare e divulgare questa cultura, che, come giustamente sostiene, veicola un sapere, conoscenza. Durante l'intervista, o meglio l'incontro, a volte canta, quando ricorda il momento di alcune registrazioni, cambia timbri e intensità vocali, passa costantemente da un idioma all'altro, dal piemontese all'italiano, riporta frasi e aneddoti tratti dagli incontri che ha avuto, ride, si commuove, ci commuoviamo, si fa serio quando ritorna con il pensiero alla nostra contemporaneità. Il suo esprimersi ha la forma tipica dell'oralità, dei colori e dei suoni dell'oralità. E' una sua caratteristica, nonostante infatti sia laureato in matematica. Caratteristica che probabilmente ha scelto in modo consapevole, in modo da essere totalmente immerso in quell'antica cultura canavesana.
Per facilitare la lettura le parti in piemontese si riportano tradotte in italiano.

E' una storia lunga. Non è facile riassumere in poche parole le cose che sono successe. Il fatto è che per fortuna o per sfortuna, non lo so, io avevo una zia, la magna Neta [magna è termine piemontese che indica la zia, ndr] che aveva avuto in gioventù la fortuna o la sfortuna di andare via come serva, che per lei voleva dire persona di servizio, però era stata secondo lei molto fortunata.
Era andata via a dieci anni, lei era nata nel 1894, pensa all'inizio del Novecento una ragazza di dieci anni con la valigia che parte e va a Genova a fare la serva […].
Però ha avuto la fortuna di andare a finire in una famiglia a cui piaceva la musica, a cui piaceva cantare. In casa avevano un pianoforte, lei era felice perché cantava e anche a me piaceva cantare. Era la mia zia canterina ma anche la mia maestra di canto […].
Per lei non era festa se non cantavano. E io all'età di 7, 8, 10 anni ho incominciato a suonicchiare un po' la fisarmonica che mi aveva comprato mia mamma. Mia mamma era andata via a lavorare, aveva guadagnato qualcosa e mi aveva comprato una fisarmonica. Io ero stato molto felice, avevo iniziato da solo, poi sono andato a scuola […]. 
La stessa cosa è successa un po' con la nonna Caterina, che era sorella della magna Neta. Era un po' più vecchia, era del 1890. La nonna era stata capace di formare una specie di sartoria, un atelier, che ospitava le ragazze dopo la quinta elementare. Insegnava ad attaccare bottoni, a cucire pantaloni, insomma, per lasciarle in giro a fare niente la gente le mandava lì, e lei ha continuato per sessant'anni a fare queste cose. Allora, considerando l'epica, l'odissea della magna Neta molto simile a quella della nonna Caterina, in totale avevano lavorato per tutto il paese a non c'era stato nessuno che le aveva fatto una festa, non c'era stato mai nessuno che avesse detto loro grazie. E allora, nel fare il Coro [Bajolese] non abbiamo pensato di fare uno strumento musicale perfetto ma abbiamo pensato di recuperare i loro canti per rendere omaggio e per dire a loro grazie che siete vissute, grazie che ci avete insegnato a valorizzare il contatto con le persone, l'amicizia, la frequentazione, l'aiuto, la concordia se vuoi, la solidarietà, insomma tutte queste cose.
Poi abbiamo pensato: “Ma chissà quante magne Nete ci sono in tutto il Canavese e quante nonne Caterine ci sono in tutto il Canavese. Facciamo un'associazione che sia in grado di raccogliere quello che queste due donne ci hanno insegnato e far capire all'altra gente e a loro stesse per prima che ciò che hanno fatto è stata una grande operazione culturale che le qualifica come degne di essere ricordate a tutti noi e per tutti noi come esempio di vita”. 
La sua stalla [della nonna Caterina] era una stalla favorevole perché aveva un muro che confinava con il 
forno del panettiere, chi conosce un po' le stalle sa che di solito sono umide questa qui invece era bella asciutta, allora si andava volentieri lì dentro e lei cantava e lei raccontava. Io mi ricordo che lei si metteva lì, aveva imparato a ricamare, tra l'altro, e anche bene e quei ricami che lei faceva erano la “trusa”. La “trusa” è  la dote che portavano le spose in dono al marito per la costituzione della futura casa e lì lei ricamava, ricamava le cifre [iniziali, ndr] sopra alle lenzuola, agli asciugamani, sulle federe e nel frattempo che ricamava con un bel filo rosso sul bianco era un invito come per dire: “Guarda se tu segui quel filo rosso chissà se un giorno o l'altro riuscirai a capire un po' il mondo popolare” […].
Poi la zia Neta aveva quel sali-scendi che c'era una volta nelle stalle, ma anche nelle case, per cui la luce [il lampadario] si abbassava e lei abbassava la luce e aveva la testa nel buio ma le mani illuminate e mentre cantava ricamava e quello era come uno spettacolo […].
Quando poi ho finito di studiare, nel 1964, io lavoravo e studiavo, avevo conseguito la laurea in matematica all'Università di Torino e finito questa incombenza, nel frattempo mi ero anche sposato erano già nati dei figli eccetera, abbiamo deciso di fondare, di mettere insieme le voci.  A Bajo c'era già stata un'esperienza corale, una volta, che si chiamava il Coro La Serenella e c'ero anch'io. Mi dicevano: “I maestri non devono cantare, i maestri devono dirigere”. Allora io dicevo che non ero un maestro, io sono uno che canta e se non c'è da cantare me ne torno a casa. A me interessava poter cantare, poter capire, poter entrare un po' in questo magico mondo […].
Poi la musica l'avevo dentro, con la fisarmonica anche senza aver avuto mai lezioni da nessuno me la cavavo, almeno la melodia la sapevo tirare fuori. Una volta si diceva “a orecchio” però io ho sempre detto che a orecchio non mi piaceva tanto secondo me è meglio dire a sentimento. Anche Leydi mi ha poi apprezzato questo termine, mi aveva detto: “Bravo anche a me piace più che a orecchio”. Cantare secondo il proprio sentimento, secondo le cose che senti dentro. Quindi poi abbiamo formato il Coro [Bajolese] […].
Tutti erano d'accordo di fare un repertorio che riguardasse zia Netta, nonna Caterina e affini, cioè le cose che avremmo registrato. E infatti io ho cominciato subito, era il Natale del 1969, il 24 dicembre, io con mia madre Marì, che era coscritta della signora Consolina, che andavamo a trovare e che avrebbe cantato per noi delle canzoni. Io col mio Grundig, che adesso ho messo al museo […].
Il primo canto [del Centro Etnologico Canavesano] è quello cantato dalla signora Consolina che compare nel nostro indice di ricerca, cominciata il 24 dicembre del 1969. E di lì siamo partiti […].
E così abbiamo incominciato a ricercare e a rompere le scatole alla gente. Prima a Bajo Dora poi siamo andati a San Bernardo, poi Loranzè, poi altri paesi che sono citati nel volume che presentiamo questa sera [Coro Bajolese I Canti Opera Omnia] e da tutti abbiamo imparato qualcosa […]. 
Quando io avevo portato nel 1971, quindi non tanti anni dopo, alcuni materiali a vedere [ascoltare] a Leydi a Milano, lui era rimasto folgorato da queste cose e aveva voluto che io lo accompagnassi. E allora l'avevo accompagnato da nonna Caterina di Villar […].
Bisogna tenere presente che il primo decennio a partire dal 1970 fino al 1980 è stata una ricerca frenetica, tutti i giorni ero da qualche parte a registrare qualcosa […].
Però la cosa più bella è che dal 1969 in poi per me personalmente sono stati anni di grande soddisfazione. Tutti dicevano: “Oh adesso che voi [Coro Bajolese] non cantate più i canti di montagna” ecc... Ma io ho sempre avuto un po' di sospetto sul canto di montagna perché per quel che sappia io una montagna che canta non l'ho mai sentita. Si tratterà quindi del canto dei montanari! Perché non si vuole mai attribuire il merito alle persone […].
Tutto abbiamo imparato dalla nostra gente e la nostra gente da noi ha usufruito una cosa grandissima e questo è forse il risultato più grande del nostro lavoro: hanno capito che le cose che sapevano avevano un valore culturale […].
Perché all'inizio loro cantavano “Mamma”... [canzoni recenti] e cantavano tutte quelle cose lì ma io dicevo: “Giovanni, ascolta, non offenderti ma io conosco uno che “Mamma” la canta meglio di te, ha una voce più bella della tua, io voglio che tu mi canti quello che cantavi nelle stalle, quando andavi a trovare la fidanzata” […].
Poi pian piano le prime cose che noi riproponevamo nel nostro repertorio erano i canti che loro mi avevano insegnato e allora dicevano: “A già che son belle però queste canzoni eh” […]. 
Poi, passando gli anni, erano gli altri che mi telefonavano dicendomi magari: “Guarda che quella canzone che ti ho cantato quella sera ho dimenticato di cantarti una strofa, se vuoi vienimi a trovare che così la registri”. E questo è stato bello perchè avevamo un coro a disposizione, il coro è stato fondamentale perché tu raccogli, riproponi e regali di nuovo. La gente capisce che non sei un truffatore che non vai da loro per fargli cantare e prenderli in giro per come cantano ma vai lì per imparare qualcosa […].
Allora pian piano dopo aver fatto il giro con il magnetofono per i canti o fare un secondo giro con magnetofono più macchina fotografica e poi fare un terzo giro con la cinepresa nel 1985 […] ecco l'azione di raccolta è cresciuta con una specie di sintonia, di scambio. Io non so quante cose sono state registrate ma migliaia di ore ci sono, canti, immagini, racconti, personaggi […].
La prima persona che mi ha veramente entusiasmato era […] Caterina Rassa ed era del 1895 […]. Lei all'età di 8 anni era stata mandata a lavorare nella filanda di Agliè, si trattava di un laboratorio in cui le bambine e anche le donne anziane andavano a togliere il filo dal baco da seta. La portavano alla domenica sera e andavano a riprenderla il sabato sera e lei nella settimana stava lì. Dormiva nel dormitorio del filatoio dove c'erano le donne che lei chiamava le “vulpiane”, donne di Volpiano che erano molto più anziane di lei ma che sapevano cantare e lei cantava quelle canzoni. Io mi ricordo che sono rimasto stupito, innanzitutto perché pensavo che non ci fosse più quel tipo di canto e invece lei mi cantò questo: [canta un frammento della Passione di Gesù, p.47 “La pasiun del bun Gesu” - Opera Omnia]. Secondo me era di un'ancestralità di altri tempi, cioè non apparteneva più al nostro sentir cantare, qui cominciavamo ad entrare in quel che io considero il mondo classico della cultura popolare, il tempio della cultura popolare, perché qui lo sentivi che c'era il sentimento di qualcosa di sacro che ti veniva proposto, non ti osavi più neanche a parlare, ascoltavi e basta […].
Con il Coro poi si sono riunite altre cose, come la radio, la televisione, gli incontri serali che facevamo nei paesi dove avevamo raccolto canti e tutto questo ha fatto sì che ci aprissero le porte delle persone che cantavano, perché all'inizio erano molto diffidenti, pensavano che volessimo farli cantare per prenderli in giro, ed ecco che il coro è stato molto utile. I ragazzi che hanno cantato con me hanno avuto la loro sensibilità nell'appoggiare la mia idea e nel farla propria. Anche perché ti devo dire una cosa: quando abbiamo smesso di cantare in un certo modo, diciamo al modo della SAT per intenderci o nella modalità standard in cui cantavano tutti i cori, tutti pensavano che questo fosse un coro destinato a durare poco, senza un repertorio. Da quel momento invece proprio perché cantavamo le cose della nostra gente ci hanno chiamati in Ungheria, in Francia, in Israele, in Brasile, in Argentina da tutte le parti, chiamati dalle Università per raccontare le storie di quelle persone che non erano re, che non erano regine ma che hanno fatto il Piemonte. Quindi l'aver battuto la strada della conoscenza culturale del canto e della cultura che c'era nel canto, perché nel canto la gente consegnava le memorie più belle, più ricche, più importanti, che loro consideravano più importanti […].
Poi il barba Tech [Battista Goglio nato nel 1898, barba in piemontese significa letteralemnte “zio” ma anche, come in questo caso, “persona in qualche modo autorevole, saggia”]. Con il barba Tech di Alpette abbiamo vissuto una serie di cose […]. Barba Tech è un fenomeno secondo me. Lui diceva sempre: “Guarda, io sono settimino. E i settimini hanno delle prerogative che nessuno sa”. E questo qui era un fenomeno. Allora mi ha raccontato: “Guarda, quando sono nato io ero brutto e piccolo e mia madre voleva soffocarmi, poi per foruna che c'era magna Minca, la zia Domenica, sorella della madre, che aveva detto: Ma no ma no Marìn non si usa mica ammazzare i bambini, bisogna allevarlo”. Allora dato che era una balia asciutta lo faceva prendere il latte sotto la capra […]. E poi diceva che: “La magna Minca, che aveva una casa particolare dove c'erano gatti e topi che facevano da padroni, per difendermi mi metteva in un cestino e poi mi appendeva con una corda attaccata alla volta e io dormivo dentro a questo cestino attaccato alla volta della casa, e poi sono cresciuto ed ero velocissimo e così mi hanno chiamato il Tech, perché magari una cosa non me l'avevano neanche detta che andavo già da un'altra parte e così mi è rimasto il nome barba Tech”. Io l'ho conosciuto il 13 ottobre 1973 in una sera piovosa, ero con un mio amico di Bajo, che lavorava lassù dove facevano gli impianti della luce nuova, mi ha portato e lui [barba Tech] mi diceva: “Ma è lei il professore?” Perché si vede che mi avevano presentato come professore e lui diceva: “Dai in fretta in fretta prendi il registratore che io ne so di canzoni da
 cantare, tutte in una volta”. Giusto per dire che personaggio fosse. E di fronte a un personaggio del genere cosa vuoi che mi interessi di tutti gli spartiti di questo mondo e di tutti i cori di questo mondo, ma dove lo trovi un personaggio così […].
Magari lo trovavano di notte, a mezza notte con il fascio del fieno sulla testa e gli chiedevano cosa facesse a quell'ora e lui rispondeva che il tempo faceva il suo lavoro e lui il proprio, cioè aveva sempre la risposta pronta. Io questa la chiamo intelligenza popolare […].
Era un mondo straordinario e abbiamo avuto la fortuna di prenderlo proprio per i capelli, come si dice, e anche questo che ci ha aiutato perché se non avessimo trovato più niente o comunque qualcosa che non fosse così vicino al mondo popolare non avremmo continuato. Perché pian piano io ho poi conosciuto il mondo un po' più studiato a partire da Costantino Nigra […]. Ho scoperto Nigra non perché sono andato a cercare Nigra ma perché i miei collaboratori mi hanno detto: “Ma questo lo cantava già mio zio, mio zio Giovanni per mostrarmi come dovevo comportarmi nel mondo”. E così ho capito che Costantino Nigra aveva messo in piedi un'indagine etnografica, musicologica, ma più che il canto come lo intendavamo noi lui era legato al testo, al testo che racconta, al testo che insegna, una pietra miliare nell'apprendere e nel conoscere il mondo popolare […].
In ogni caso quando mi hanno regalato questo libro [Canti popolari del Piemonte] io me lo portavo dietro quando andavo a trovare i miei testimoni nelle stalle e leggevo dei pezzi e allora loro mi dicevano: “Oh ma questo è quello che cantava sempre zio Giacomo e questo è quello della nonna Caterina”, ecc... Quindi io ho conosciuto il Nigra, che era famoso, attraverso la conoscenza delle informazioni che mi davano queste persone. E quindi unire il mondo popolare autentico con l'esperienza Nigra mi sembrava il minimo. Quindi è nata tutta una pedagogia, la pedagogia della stalla, la vita della stalla che serviva ad insegnare ai giovani come comportarsi […].
Meraviglia per me, anche forse volo pindarico, però la mia gente io l'ho fatta centro della mia conoscenza di vita, gente che fino a quell'epoca non aveva mai ricevuto nessuna patente culturale che gli rendesse giustizia. E tutte le cose che han fatto per esempio i grandi ricercatori a cominciare da De Martino, Bosio e tutti gli altri, io ho visto sempre il loro lavoro come un tentativo di rivalutare culturalmente e socialmente la gente popolare, quindi una motivazione anche politica nel loro modo di operare, di ricercare, di studiare, nel loro modo di fare proprio gli insegnamenti che venivano da quella gente. Poi di lì dal canto, dal racconto viene la musica, senza musica non c'è festa e allora alla ricerca della musica. Il Quintet, il quintetto che noi chiamiamo Quintet canavesano. Era in genere costituito da cinque strumenti ma non era per quello che si chiamava quintetto, si chiamava Quintet, l'abbiamo scoperto studiando il fenomeno, perché la modalità con cui venivano eseguiti i brani comprendeva cinque parti musicali: una melodia, una seconda voce e tre accompagnamenti, un trombone, un genis, come chiamavano loro, e un basso tuba fondamentale, che tuo padre è un maestro a utilizzare [si rivolge a me]. Questo riempiva la valle di suono, riempiva le serate, riempiva i carnevali, costruiva le feste, era l'amalgama, lo zucchero, il miele, il bello della festa perché poi tutti vogliono ballare, tutti vogliono muoversi, in questa frenesia che la musica sa generare nasceva la vita, nascevano i rapporti, si propagandava la continuità della specie [ride]. 
A Rueglio, ad esempio, l'antica formazione non era neanche chiamata Quintet ma era chiamata al trumbi 'd Ruei [le trombe di Rueglio] perché erano tutti strumenti a ottone. Quindi c'era la tromba, il bombardino baritono, il trombone in si bemolle, un genis in mi bemolle e un basso in genere in fa, come quello di tuo padre, ma a volte anche in si bemolle come a Brosso, che ha un suono molto più profondo, ha delle caratteristiche sonore completamente diverse dal basso in fa. Poi invece di cinque, se le parti erano
 duplicate, potevano essere anche in dieci ma le parti erano sempre cinque, i suoni erano duplicati, solo il basso rimaneva unico perché il basso era quello che dava la base, era il ritmo, non potevi mettere due bassi perché sarebbero stati in contrasto *.
Era uscito un volumetto sui Quintet, ormai esaurito [El quintet / fotografie di Giovanni Torra, testo di Amerigo Vigliermo, Ivrea, Priuli & Verlucca, 1979], e avevo detto che questo era il nostro blues, era la nostra maniera di manifestare i sentimenti che avevamo nel cuore, come esattamente facevano gli americani solo che gli americani potevano vantarsi di un'amplificazione enorme delle cose che loro facevano mentre noi meno, ma perché meno guardavamo all'interno del nostro mondo. Se venivano da Torino erano sempre migliori di quelli che cantavano a Bajo Dora. E invece bisognerebbe guardare le cose per quello che sono e da dove vengono e per quello che loro ci trasmettono nell'ascoltare quelle cose, quei canti. Io quando sento nonna Caterina cantare mi commuovo, come esattamente fa quel mio amico Alfonso, lui registrava le canzoni sue, era un appassionato, poi mi diceva che prendeva la cassetta, andava in cantina, prendeva la ciotola di legno che serviva per bere vino, beveva una volta, cantava, aveva il registratore, ascoltava e si commuoveva, ascoltando dalla sua stessa voce. Avevano un potere penetrativo nell'animo umano. Ecco un'altra prerogativa che avevamo noi era quella di conoscere le persone e di non abbandonarle più fin quando il tempo e il destino ce li lasciava, gli rompevamo l'anima fino all'ultimo minuto che stavano sulla terra e loro erano contenti e felici e quando ci vedevano arrivare era per loro un momento di festa. Ecco la festa, e quando dico festa voglio dire quell'immersione che tu hai nelle cose che stai ascoltando. Per esempio, se tu ascolti la musica del Quintet di Brosso, così dolce, mai troppo forte mai troppo piano, ora veloce ora lenta a seconda di che cosa ti deve dire, dove la frase musicale ti porta e tu ascolti quella musica in silenzio, chiudi magari anche gli occhi e ti lasci scendere nel cuore questa musica e questa musica è come la panacea di tutti i mali, ti porta in un altro mondo. Ecco perché Alfonso mi diceva: “Io piango quando ascolto queste cose, quando il canto è anche con la mia voce, io mi emoziono fino a piangere”. Speriamo di essere sempre capaci di raccogliere questo messaggio popolare […].
Ma io non vedo un cambiamento [migliore, si riferisce alla contemporaneità]. Guarda un qualsiasi comunicato stampa o di telegiornale, non puoi trovare dentro un cambiamento effettivo delle cose, trovi solo gente che fa battaglie per i propri interessi e non si rendono conto che stanno scavando la fossa alle povere persone che lavorano, che non sono protette, non solo nei soldi ma anche nei sentimenti, nelle cose più intime, nelle feste, in tutto, non c'è nulla che valorizzi il mondo popolare come merita, soprattutto come merita il mondo popolare capace di insegnare qualcosa per migliorare questa società. Per questo dico che non vedo cambiamento perché il mondo popolare continua ad essere negletto, continua ad essere sfruttato, continua ad essere messo fuori gioco, fuori dall'interesse che invece dovrebbe suscitare una politica oculata capace di raccogliere le istanze vere che la gente pone. Ma pensa te chi deve pagare l'affitto e ha 250 euro al mese, ma come si fa a fare dei ragionamenti così […]. 
Nel frattemo tutti i mezzi di comunicazione fanno di tutto per sradicare, per negare l'importanza culturale del mondo popolare e quindi per escuderlo dal dibattito sociale, ignorarlo totalmente, offenderlo, cancellarlo, non riconoscerlo e io sono un po' preoccupato su questo […].
Non ho mai parole sufficienti per ringraziare tutti i canavesanio che mi hanno insegnato qualcosa. 
Come coro Bajolese inizialmente avevamo l'intenzione di fare il canto più bello e invece abbiamo capito che non bisogna fare il canto più bello ma il canto più vero. E allora pian pianino abbiamo abbandonato le armonizzazioni. Io portavo le registrazioni a sentire ai miei ragazzi, loro ascoltavano e così siamo diventati sempre più popolari e sempre meno cattedratici, sempre più in grado di testimoniare quel mondo che non aveva bisogno di orbelli, aveva già in sè tutto perché possedeva la ricchezza del sentimento comunicativo che ti viene dalla realtà vissuta, dall'esperienza acquisita sulla tua pelle […]
Nel mondo popolare conviene ascoltare e imparare. Nella ricerca ci siamo trovati di fronte a monumenti canori che non osavamo nemmeno approcciarci perché non erano solo canto, solo musica, erano vita, erano sentimento. Giacomo Giacomino di Cinta Canavese ci canta “Elvira” e quando finisce di cantare ha fatto zittire tutte le persone che c'erano nell'osteria, tutte ad ascoltare quello che lui cantava e quando ha finito di cantare si rivolge a me e mi dice: “Adesso cantala tu, se sei capace”. Come dire, tu la puoi magari cantare ma non ci puoi mettere quello che io ci metto […]. 
Per trarre veramente l'essenza di ciò che vai cercando ci vuole una conoscenza preventiva. Può capitare ad esempio, come è capitato a quello scienziato milanese che è venuto a registrare a Bajo,  che andando alla cooperativa ha chiesto un bicchiere di latte al che tutti si sono messi a ridere e non ha registrato più niente perché un bicchiere di latte, a Bajo Dora in quell'epoca, ognuno l'aveva a casa sua, perché ognuno aveva una mucca da mungere […].
Per far cantare le persone bisogna conoscerle, bisogna stimarle, non so, diventare amici ma nella maniera più schietta, più profonda, più vera e allora poi la gente si rivela, ha fiducia, canta, racconta. Quelli che preparano l'intervista a tavolino sono destinati a finire presto, non sono persone che hanno capito che cos'è il mondo popolare.


Coro Bajolese 1966-2018. I canti Opera Omnia, Atene del Canavese 2023, pp. 500, euro 50,00 Libro con Pen Drive USB
Si tratta di un progetto editoriale che raccoglie tutti i testi e tutte le registrazioni del Coro Bajolese. Non le registrazioni sul campo della grande indagine sul territorio iniziata per documentare e fornire il Coro stesso di uno specifico repertorio ma quel repertorio cantato dal Coro, con rimandi alle fonti originarie nelle brevi didascalie. I testi e gli audio nella chiavetta usb allegata comprendono le numerose edizioni discografiche del Coro Bajolese più il documentario Coro Bajolese 1966-1991, 25 anni di attività. 350 canti circa per oltre 500 pagine. Inoltre un'appendice fotografica finale, dall'archivio del Centro Etnologico Canavesano, che documenta testimoni e storia del Coro.
Il libro-cofanetto è dedicato ai canavesani che negli anni hanno collaborato con il Coro e nelle prime pagine presenta il sottotitolo, riferito ai canti: Un riconoscente ricordo a chi a Noi li ha insegnati, ai coristi che li hanno diligentemente imparati ed in eredità culturale per chi vorrà continuare la nostra strada.
Segue una breve presentazione dello stesso Amerigo Vigliermo e un tributo all'unica voce femminile, la straordinaria Norma Betteto, di Mauro Ginestrone, corista del Teatro Regio di Torino e impegnato in vari progetti sulla didattita musicale: Interpretazione e spontaneità ispirata nella vocalità popolare femminile.
Peccato l'assenza nel libro di un indice dei canti, strumento utile per la consultazione, della traduzione dei testi in piemontese e di una grafia standardizzata del piemontese. Ma è lo stesso Vigliermo a dare indicazioni sulle finalità dell'operazione: La grafia dei testi in dialetto non segue nessuna teoria in particolare. E' quella che ci sembrava adatta alla parlata dei nostri collaboratori. Possiamo consigliarvi di leggere il testo mentre state ascoltando il canto. E poi, forse, il dialetto più che scritto andrebbe parlato […]. 

Flavio Giacchero

Foto di Flavio Giacchero
Video di Flavio Giacchero e Luca Percivalle



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* Per il contesto antropologico ed etnomusicologico di queste formazioni strumentali si veda: Flavio 
Giacchero, La tradizione musicale nelle Valli di Lanzo, in Pagine Nuove 4, giovani autori per la storia e la cultura delle Valli di Lanzo, Lanzo T.se, Società Storica delle Valli di Lanzo, CXXVIII, 2015

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