Alessio Arena – Marco Polo (Escenamusic/SoundFly/Self, 2022)

Cantautore e scrittore, ma anche insegnante di lingua e letteratura iberica e attivista lgbtqi+, Alessio Arena vive ormai da anni a Barcellona dove si è affermato musicalmente, ma ben salde sono le sue radici a Napoli dove è cresciuto, accanto al padre Gianni Lamagna, voce della Nuova Compagnia di Canto Popolare. Dopo aver debuttato nel 2014 con lo splendido “Bestiari(o) familiar(e)” che giungeva a coronamento di una articolata formazione culminata con la vittoria al Festival Musicultura, il suo percorso è proseguito con “La secreta danza” del 2016 e quel gioiellino che era "Atacama!" del 2019, album che raccontava il suo ritorno a casa e nel quale si intrecciavano lingue, suggestioni e ispirazioni poetiche. Parallelamente, molto intensa è stata anche la sua attività in ambito letterario con ben sei romanzi all’attivo tra cui meritano una citazione i più recenti “La notte non vuole venire” del 2018 e “Ninna Nanna delle mosche” del 2021. Il nuovo album “Marco Polo” raccoglie undici brani, per poco meno di quaranta minuti di appassionante storytelling, nel quale il tema del viaggio viene declinato in tutte le sue diverse sfumature, un transito dell’anima che parte dall’interiore e attraversa luoghi, incontra personaggi e storie.  Abbiamo intervistato, Alessio Arena per ripercorrere con lui l’evoluzione del suo songwriting, soffermarci sul rapporto con la prosa ed approfondire la genesi di questo nuovo lavoro.

Partiamo da lontano come si è sviluppata la tua ricerca sul songwriting in questi anni?
Innanzitutto, ho desiderato tanto poter creare delle canzoni che mi alleggerissero l'imbarazzo di dovermi esibire dal vivo. Questo mi succedeva all'inizio della mia carriera, quando mi venivano proposti brani da interpretare che, sebbene si sposassero con la mia vocalità, non mi convincevano. Per questo ho smesso quasi subito di fare teatro musicale e di lavorare da interprete. Il primo gruppo che misi su in Spagna, però, aveva in repertorio molte versioni, che spaziavano dal folklore argentino, la canzone d'autore mediterranea e il reggae (!), che da giovanetto mi piaceva molto. Eravamo in tre e ci chiamavamo "La vida secreta de las plantas". Con il tempo ho scritto quello che mi avrebbe fatto piacere cantare e ho avuto sempre meno timore dei miei azzardi rispetto alla composizione, alla struttura armonica, alle storie che raccontavo. 
 
Sei anche un apprezzato autore di romanzi, penso ad esempio al recente e bellissimo “Ninna Nanna delle mosche” (Fandango, 2021) quanto il raccontare in prosa ha influenzato lo storytelling musicale? O sono parti della medesima visione?
Si è evoluta parallelamente o, meglio ancora, mischiandosi al mio lavoro di scrittore. Dico sempre che le mie canzoni sono i romanzi che non riesco a scrivere, perché ho solo una vita e in media ne pubblico uno, ogni tre quattro anni. 
 
C'è un legame tra le tue storie in prosa e le tue canzoni? 
Quasi sempre, anche perché, con il tempo, le mie canzoni sono diventate più narrative: il verso si allunga, la rima si diluisce in brevi assonanze. Ho pubblicato il mio primo disco, un EP, “Autorretrato de ciudad invisible” del 2009, dopo l’uscita del primo romanzo “L'infanzia delle cose” (Premio Giusti Opera Prima, 2009). Da quel momento è sempre stato così: ho lavorato ai dischi e ai romanzi contemporaneamente. In ogni modo, non ho mai pensato che le canzoni fossero un'estensione delle storie che raccontavo nei libri.
Ma è innegabile che una relazione c'è sempre.
 
Quali sono le ispirazioni alla base del tuo nuovo album “Marco Polo”? 
Volevo continuare a parlare di viaggi, ma questa volta di viaggi dell'immaginazione, che sono quelli che ci aiutano a fare strada, forse ancora di più che quelli reali.
 
C’è un filo rosso che unisce i vari brani?
I territori inesplorati, almeno quelli che lo erano ancora nel mio canzoniere: l'amore fraterno (“Gianni”), l'infanzia e la scoperta di rappresentare una dissidenza sessuale (“Mio padre, la luna”), le nuove dimensioni e i nuovi patti che possono esserci alla base di una relazione di coppia (“Espina”), un dialogo a cuore aperto con la città che mi fa incontrare sempre con la mia fragilità (“Jastemma”)...
 
Qual è brano a cui sei maggiormente legato?
Sicuramente "Il paese che non c'era" è diventata una canzone sempre presente nel mio repertorio e che credo sia abbastanza rappresentativa della musica che mi piacerebbe continuare a scrivere.
 
Quali sono le identità e le differenze con i tuoi dischi precedenti? 
Io non ho ancora trovato una formula per fare canzoni, e sono sicuro che se la trovassi lavorerei subito per poterla cambiare. Credo che se si mettessero a paragone canzoni di dischi diversi - non c'è bisogno di andare molto lontano nel tempo, basterebbe considerare "Diablada" e "Kublai Khan", per esempio -, salterebbe all'occhio una produzione, uno stile e una scrittura differenti. Eppure, sono sempre io. Devo mischiare le carte per continuare a essere sincero facendo musica. Per il pubblico e per gli addetti al mestiere questo potrebbe essere un limite, ma non so fare altrimenti.
 
Come si è indirizzato il tuo lavoro in fase di arrangiamento dei brani?
Quando tutte le canzoni erano pronte, con una struttura armonica chiara e un accompagnamento base di chitarra, è arrivato Arcangelo Caso, con cui lavoro da diversi anni. È lui a orchestrare ogni pezzo fino al prodotto finale. 
 
In "Kublai Khan" sembrano esserci degli ideali addentellati con la storia raccontata in Ninna Nanna delle mosche... 
Ci sono. In questa canzone immagino che la relazione tra Polo e l'imperatore dei mongoli vada oltre la politica. Ho tenuto presente soprattutto "Le città invisibili" di Italo Calvino, citato anche nel video che illustra la canzone e realizzato in Spagna dal cantautore e videomaker Guillem Roma.
 
Chi è il tuo Marco Polo? 
Un instancabile viaggiatore con il vizio del ritorno a casa. Un po' defilippiano e un po' omerico. 
 
Ci racconti il brano "Jastemma" in cui duetti con Roberto Colella? 
Una sorta di dialogo tra chi canta e la città, simboleggiata da una figura femminile, di madre. A inizio strofa ci sono i suoi consigli: “Core ‘e mamma,/fa felice a chi te vo’ e t’’o ddice”. Il dialogo, che sembra
quasi una preghiera, si trasforma in bestemmia quando le richieste non vengono accolte, come specificato nel ritornello: “Penzo a tte,/vocca astretta ‘e ‘na Jastemma”. Nel finale, attraverso la mia voce e quella di Roberto si snoda un monologo della città, ‘muntagna ‘e paura: un’auto riflessione poetica sulla propria fragilità.
 
Concludendo come saranno i concerti con cui presenterai “Marco Polo”?
Il tour è già partito in Spagna dall'anno scorso. Come sempre, nella mia vita divisa in due, il disco sarà presentato con formazioni diverse, a seconda che si giochi in casa o in trasferta. Per i concerti italiani mi accompagnano Arcangelo Caso al violoncello e Raffaele Vitiello alla chitarra portoghese. In Spagna il trio è puramente chitarristico, ed è composto da Isabelle Laudenbach e Caterinangela Fadda.


Salvatore Esposito

Alessio Arena – Marco Polo (SoundFly/Self, 2022)
“Risarcito dalle tue apparenze/ Mi ritroverò nel sogno di un orso” è una bellissima frase de “L’orso”, la seconda in scaletta delle undici canzoni che compongono “Marco Polo” di Alessio Arena. E ci piace pensare che possa (per sottrazione, perché d’altronde “Quello che abbiamo vissuto non era realtà” e non si può dissentire) racchiudere lo spirito dell’album. Come si scrive nell’intervista, il flusso delle canzoni è un viaggio (soprattutto) immaginario (quanti di quelli raccontati non lo sono?), una traiettoria libera, che non si infrange né nella retorica né nella semplicità. Alessio Arena sa usare le parole. E di questo ha fatto una specie di mestiere (si perdoni il gioco di riflessi che ci costringe, con malcelata e benevola compiacenza, alla semplicità retorica), anche se frammentato tra la prosa, la canzone e una tipologia di racconto orale – il cui svolgimento è riservato, in buona parte, ai suoi studenti. Sa usare le parole e ce lo dice con una franchezza più che convincente – addirittura inespugnabile. Ce lo dice nell’intervista, quando lui stesso esamina la sua prosa-canzone, svincolata dalla metrica dritta e fissa (non facile né scontata, ma preceduta da aspettative, appesantita dall’investimento emotivo) e appoggiata sul ritmo di un discorso, di un’immagine complessa, di un’epica non comprimibile: comprensibile nello sviluppo libero, assonante ma spazioso, orizzontale. E ce lo canta nelle canzoni, in cui i testi ricordano il racconto, il favoleggiare: non per densità di narrazione (lunghezza, ampiezza), ma per intensità. Direi addirittura per poetica, per struttura, per morfologia. Proviamo ad ascoltare il primo brano in scaletta, “Il paese che non c’era”: il primo elemento che ci attrae è la scorrevolezza delle frasi (non delle strofe), la dimensione aperta, chiara, di una struttura ritmica leggera e levigata. Di una struttura narrativa (di una narrazione strutturata, strutturale) che potrebbe includere tutto. Che riflette la (percezione di una) capienza infinita, di un racconto a forma di vortice, che ingenera equilibrio, posatezza, potenza, profondità, libertà. È un piacere entrare nel viaggio di Arena e cogliere questa gamma di possibilità, che trascina l’intera narrativa dell’album, come se fosse un vero spostamento e, allo stesso modo, uno spostamento della prospettiva. D’altronde, gli album comprendono, come sappiamo, una serie di cerchi concentrici (di messe a fuoco che seguono il processo di una strana reiterazione), come la musica (le note e la loro relazione armonica), il ritmo (e la sua relazione con la melodia), i suoni e la loro aderenza alle parole: insomma il cappello e l’ombrello “di carta di riso e canna di bambù” (ci capiamo?). Il vortice, il flash, il suono senza il rumore, la forza senza lo strappo (“non lo so se devo dire al mondo che oggi inizio anch’io a girarti intorno”): sembra che Arena trovi sempre il modo di spostarci, accavallando i brani in una sequela di immagini che acquisiscono nitidezza man mano che si sovrappongono l’una all’altra: “non lo so se amando a sufficienza ho vinto l’ignoranza che ho di te” (“Serenata”) e “gesticolare invisibili idee e non dire niente che rompa la calma apparente” (“Epistolario”). Cantare, in questo quadro, non può che essere come parlare. Cioè il canto – incastonato nello spazio di una proporzione perfetta tra scrittura e immagine – assorbe tutta l’organicità dei significati espressi dalle parole. E questa relazione calamitica attrae anche noi, perché si articola con estrema precisione attraverso l’impostazione e la voce delicata di Alessio Arena. Il discorso musicale, poi, rientra in questa poetica virtuosa, aderendo alle posizioni assunte dal racconto, alle articolazioni fluenti e agili di una prosa elaborata con leggerezza (pochi strumenti ma determinanti: corde, flauti, percussioni), ma che, rappresenta la complessità, cioè ciò che non si riesce a toccare, a comprendere fino in fondo, e che si è costretti a indagare, ad avvicinare: relazioni, desideri, sogni, distanze. Insomma ciò che abbiamo, ciò che ci resta, il modo in cui riusciamo a incastrarlo con ciò che ci circonda e con cui, alla fine del viaggio, facciamo i conti e misuriamo la distanza percorsa. 


Daniele Cestellini

Foto 4 e 5 di Juan Miguel Morales

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