Vusi Mahlasela, Norman Zulu and Jive Connection – Face to Face (Strut, 2023)

La Strut pesca l’ennesima gemma e va a riscattarla dagli archivi del produttore svedese Torsten Larsson: i quattordici brani raccolti in “Face to Face” sono stati incisi nel 2002 e celebrano l’incontro fra i cantanti Vusi Mahlasela, la “Voce” del Sudafrica, Norman Zulu e il collettivo svedese Jive Connection con il chitarrista e bassista Stefan Bergman e il batterista dei Little Dragon Erik Bodin. “Ho incontrato Vusi per la prima volta all'inizio degli anni ‘90 durante un programma di scambio tra musicisti svedesi e sudafricani. – ricorda Erik Bodin - Era un musicista molto stimolante, curioso e quello fu l'inizio della nostra relazione musicale creativa. È stato un viaggio fantastico lavorare con Vusi e i Jive Connection. Vusi e Norman Zulu hanno insegnato loro come eseguire i cori in tutte le diverse lingue sudafricane. Ricordo che rimasi così impressionato dalla voce e dagli arrangiamenti vocali di Vusi, che li realizzava in tempo reale, dal vivo”. Per Vusi Mahlasela è una memoria ancora viva, nonostante siano passati oltre vent’anni: “Con i Jive Connection ho avuto un rapporto forte; con loro e con gli svedesi, con le organizzazioni anti-apartheid, che ci hanno aiutato a superare i momenti duri e difficili durante la lotta contro l’apartheid”. Di Vusi Mahlasela avevamo scritto nel 2020 in occasione dell’uscita di “Shebeen Queen”, dedicato alla nonna Ida “Magogo” e alla township Mamelodi (la “madre della melodia”) a Pretoria dove Mahlasela continua a vivere.  Imbevuto delle musiche che trasudava lo shebeen, il bar, della nonna Mahlasela si costruì la sua prima chitarra usando del filo da pesca e una lattina di olio da cucina. Come per molti altri giovani, le rivolte di Soweto del 1976 cambiarono la sua vita e spinsero il giovane Vusi Sidney Mahlasela Ka Zwane a unirsi all'African National Congress divenendo una potente voce della lotta contro il regime dell’Apartheid, attirandogli anche le attenzioni della polizia. Da allora ha sempre prestato attenzione alle forme di violenza che attraversano la società, quelle domestiche (“Monsters in their own homes”) e quelle che palesano avidità e ingiustizia, come canta in inglese nei brani più narrativi, per esempio, in “Faceless people” dove gli elementi di tensione vengono veicolati da chitarre e tastiere elettriche, prima di lasciar spazio all’ “oasi” acustica e interrogazione conclusiva: “What is this world coming to?”. Le parabole di “Prodigal Son” e “Son of Prodigal Son”, rispettivamente, aprono e chiudono la scaletta portando una ventata di tempi medi e buonumore intrecciando armonie e melodie sudafricane e sezione ritmica soul su cui dialogano a meraviglia la sezione fiati, il coro e le voci dei solisti. C’è spazio per arrangiamenti reggae e dub (“Roots”) e per tracce che guardano esplicitamente al dance floor: l’andamento funky-soul di “Abantu Abangana Buso” mette in primo piano l’abilità dei fiati nel punteggiare l’alternarsi delle voci e, soprattutto, la potenza de coro che, altrove (“Thululalele”), disegna cornice dai toni più intimi in cui vengono cesellati dialoghi verbali e sonori, con i fiati in bella evidenza e in costante dialogo con una sezione ritmica sempre pronta ad offrire nuovi accenti e variazioni. Osserva Erik Bodin: “Credo che siamo riusciti ad aggiungere un po' più di ruvidità e groove alla musica. Nelle mani del nostro produttore Torsten Larsson, il remix delle vecchie registrazioni ha creato una miscela magica. È una musica davvero gioiosa, piena di amore e speranza!”




Alessio Surian

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