Il nuovo album di Fantastic Negrito – nato, come si legge nel suo sito, Xavier Amin Dphrepaulezz – è destinato, come quasi tutti quelli che lo hanno preceduto, a mietere successi. In primo luogo perché Negrito è – ormai da qualche anno – in uno stato di grazia, e la sua chitarra e la sua voce brillano come poche altre in circolazione. Inoltre sembra riuscito a far confluire nella sua figura esile e ballerina tutto il fascino di una ricerca musicale consapevole, che abbraccia sì un’estetica suburbana e irriducibilmente fricchettona, ma in un profilo organico di artista a tutto tondo (quasi inattaccabile), su cui la retorica del divismo alternativo non si appiccica. La prospettiva che ci suggerisce è tutta personale, sia nei contenuti che nei modi in cui questi sono trattati e divulgati. Basti pensare che l’album in questione, “Grandfather Courage”, esce a poco più di sei mesi da “White Jesus Black Problems”, sesto album del chitarrista di stanza a Oakland, e nella forma di una rivisitazione acustica di quest’ultimo. Come non bastasse, “White Jesus Black Problems” è accompagnato anche da un film lungometraggio (che sarà presentato, in presenza dell’autore, in diverse tappe prossimamente anche in Italia), in cui Negrito romanza in video la storia intorno a cui si impernia l’album: i suoi antenati, una bianca scozzese e un nero schiavo americano, che hanno generato una famiglia afroamericana libera. Questa storia diviene – come si può intuire – il quadro entro cui Negrito pennella la sua idea di libertà e contemporaneità, la sua musica raffinata e, al tempo stesso, empirica, sbaffando con ogni tocco l’estetica puristica dei generi e delle contaminazioni ordinate. Con “Grandfather Courage” ci chiede, in fondo, uno sforzo ulteriore. E, man mano che ascoltiamo i brani, sembra che ci dica di elaborare noi stessi una nuova idea, un’opzione di musicalità alla Negrito: non mi interessa la forma, ma le forme che si mescolano e il suono che ne esce. O meglio, mi interessa la forma che la narrativa di un album, o di un gruppo di canzoni e di immagini, assume passando di mano in mano, filtrando attraverso elaborazioni poliedriche. Siamo dentro una prospettiva di destrutturazione: Negrito riprende una buona parte dei brani del suo ultimo album e li immerge in uno scenario esclusivamente acustico, in cui si arriva ai nodi di ogni passaggio e si ascolta il sussurro e il rantolo della voce. Ecco, volendo interpretare (questo ci chiede con continui punzecchi) e riconoscere qualche elemento basilare, si potrebbe ricondurre l’album (e la sua pubblicazione) in una sorta di marcia tra due poli: il bianco e il nero degli antenati, la libertà e la schiavitù, l’assetto blues irrinunciabile e ricercato come radice radicale, la tradizione del blues elettrico che si incrocia con tutta la black music che possiamo immaginare. Insomma un binario lunghissimo che, se percorso a ritroso, ci porta almeno al periodo 2016-2020, durante il quale pubblica “The Last Days of Oakland”, “Please Don’t Be Dead” e “Have You Lost Your Mind Yet?” (tutti e tre vincitori di un Grammy come miglior album di blues contemporaneo). Sono album fondamentali, attraverso i quali Negrito apre la sua vera strada e scava i due binari che vediamo oggi. Binari che, per il momento, ci portano tutti al brano “Oh Betty”, presente sia in “White Jesus Black Problems” che in “Grandfather Courage”. Nel primo, però, la canzone è acida e, letteralmente, graffia con suoni scarni ma udibilissimi, tutti imperniati attorno alla voce disgraziata e profonda di Negrito (che canta dentro una gabbia). Nel secondo, “Oh Betty” diviene la sintesi di tutto, perché la voce si fa più presente, alternando registri pieni e falsetti con cori inquieti immersi in un lontano reverbero (“Sweet songs you’re singin’/ I can hear them songs”). Ciò che “vediamo” è il cammino, il divenire, ritmato da un suono ferroso, che sostiene pochi accordi e pizzichi di chitarra. A un passo dalla fine tutto si deforma in un pianoforte liberatorio e di pausa, di intervallo. Che, a ben vedere, ha però il compito di riportare alla traiettoria originaria: “Oh Betty/ The days keeps passin’ me by/ But I keep on dreaming/ One day we’ll be together”.
Daniele Cestellini
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