Artisti Vari – I Dischi del Sole - Serie Sperimentale. Canzoni d’Uso (Ala Bianca, 2022)

Avviarsi all’ascolto di questo splendido cofanetto – involucro bianco, puntellato di scritte rosse e nere, come vuole la tradizione – equivale a entrare in una gigantesca biblioteca. Dove sai di trovare i libri che cerchi e che potrai leggerti tutti. Le “canzoni d’uso” raccolte in questa serie sperimentale – cioè nata con approccio empirico, dentro un percorso lunghissimo e densissimo, che richiama lunghi decenni di storia e di produzione musicale alternativa, attentamente conservata dall’Istituto Ernesto de Martino – mantengono una doppia e irriducibile valenza. Da un lato si stagliano nel nostro immaginario in forma di liriche epiche, sostenute dall’aura di una stagione straordinaria, che dalla sua irriducibile complessità ha tratto spunti narrativi difficilmente ineguagliabili: sia per profondità di analisi e di interpretazione, sia per l’elevatezza del processo programmatico che le ha determinate. Dall’altro lato richiamano una pragmatica che ha molto a che fare con il canto popolare, cioè con la vita di tutti i giorni. Ascoltando i settantotto brani – raccolti in quattro cd che, a loro volta, accolgono registrazioni di diciotto vinili, pubblicati in origine tra il 1963 e il 1975 e mai ripubblicati – ci sembra di intravedere molte connessioni (scontate, potrebbe dire qualcuno: essenziali, ribatteremmo noi). Connessioni che definiscono un evidente trittico (che in queste pagine ci sta a pennello): la musica popolare (antitetica, protopolitica, indipendente), la musica cantautorale (politica, poetica, profonda, aperta) e la musica di protesta (così è definita, anche quando si accompagna al termine “folk”). Ora, l’approccio e il segno che lascia quest’ultima non sono meglio o peggio di quelli della scuola cantautorale (che ha avuto un successo incomparabile sul piano commerciale), la quale, ispirata da una traiettoria più intima e raffinata (almeno in termini artistici), ha mosso i primi passi proprio nella protesta. Però la raffinatezza ha spinto un po’ al margine l’immediatezza, la crudezza, un certo realismo aspro, duro. Per questo, ci suggerisce la raccolta in questione, dovremmo definire “pratici” i cantori e le canzoni (il filone, la scuola, la tradizione) de I Dischi del Sole. E – se siamo d’accordo con il ragionamento – non possiamo chiedere di meglio di quel “canzoni d’uso” per riempire, finalmente, un vuoto ambiguo della nostra storia della musica. Perché, sottraendo, ci accorgiamo che se la protesta è ovunque, e indubbiamente ve ne è nei cantautori e nel canto popolare, la dimensione della praticità si rileva con più difficoltà. Ve ne è nella scuola dei cantautori in ragione della loro straordinaria capacità di elaborare in canto sentimenti e immagini profonde, in cui si riconoscono le sensibilità di molti. Ma è una funzione trasfigurata in forme poetiche, dove prende forma e finisce per prevalere la dimensione elegiaca. Ve ne è nel canto di tradizione orale, ma in una dimensione concettuale e narrativa del tutto diversa: è anonima e collettiva. Ivan Della Mea – che apre il primo disco con “Tre ballate da ‘la grande e la piccola violenza’” – parla di sé, senza poesia e senza mediazione metaforica: è come un discorso diretto, una cronaca. La rivendicazione di uno spazio di parola – in una forma pressoché libera, sia esteticamente che contenutisticamente – appare, così, l’elemento più significativo della dimensione sperimentale di questa serie di “canzoni d’uso”. E, in questo senso, cogliamo più a pieno uno strato fondamentale della produzione musicale italiana, comprendendo il contribuito di Dario Fo, Giovanna Marini, Sandra Mantovani, Fausto Amodei, Gualtiero Bertelli, Rudi Assuntino (del quale ascoltiamo l’Ep “Uccidi e capirai” nel quale è contenuta “L’uomo che sa”, traduzione in italiano di Master of War di Bob Dylan) e molti altri. Allo stesso modo leggiamo i passaggi di una parte della nostra storia, grazie a brani come “Rosso provvidenza (le basi americane)”, “Padrone Olivetti”, “Avola, 2 dicembre 1968”, “Nove Maggio”, “Sciopero!”. D’altra parte quella praticità narrativa che Ala Bianca rivendica – e che noi, nel nostro piccolo, puntualizziamo come segno forte della sua produzione – non ha pressoché valore sul piano estetico. Cioè non raccoglie coerentemente dei canoni di genere. Ne ha semmai in termini di narrativa: addirittura di letteratura. 


Daniele Cestellini

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