Steeleye Span – Live at the Rainbow Theatre 1974 (Chrysalis, 2022)

Questo disco in doppio vinile rosso corrisponde all’undicesimo volume dei dodici che compongono il box “Good Times of Old England” uscito a maggio e contenente l’opera ufficiale completa degli Steeleye Span durante il periodo 1972-1983. Un’operazione di archeologia sonora poiché è il mix delle registrazioni di due concerti tenuti dal gruppo nel prestigioso teatro londinese il 28 e il 29 novembre dell’ormai lontano 1974. Uno di questi brani “Wife of Ushers Well” era già stato inserito nella doppia raccolta “Original Masters” di due anni dopo, la Chrysalis nonostante fosse in possesso delle registrazioni complete, inspiegabilmente, le ha mantenute inedite fino ad oggi. Si tratta degli spettacoli che accompagnavano l’uscita di “Now We Are Six” e al set generalmente partecipavano anche The Mummers Play. Il tour veniva aperto da un triste cortometraggio di sette minuti dal titolo “Bold Poachers” di un regista statunitense, alla cui conclusione il palco si oscurava e iniziavano le prime note di “Bach Goes Limerick” composizione originale del violinista Peter Knight che combinava musica classica e gighe irlandesi. Dopo un lungo tour americano e australiano, queste ventinove date inglesi si svolsero durante gli ultimi due mesi dell’anno, con un bizzarro repertorio che comprendeva solamente due brani da “Now We Are Six”. Ben quattro erano gli inediti che finiranno in “Commoners Crown” che sarebbe stato realizzato l’anno seguente e un quinto “Wife of Ushers Well”, verrà incluso addirittura ancora dopo, in conclusione del lato A di “All Around My Hat”. Tre canzoni invece provenivano dal disco precedente “Parcel Of Rogues” e solamente l’immancabile gregoriano “Gaudete”, dal capolavoro “Below The Salt” (1972). “Now We Are Six” era certo una dichiarazione di intenti ma anche il titolo di una poesia tradizionale, il ruolo principale comunque lo giocava come sempre Maddy (Madelaine) Prior che appartiene ad una schiera di talentuose vocalists inglesi come raramente se ne sono viste sbocciare più o meno contemporaneamente: Sandy Denny, Jacqui McShee, Linda Peters, Shirley Collins, Frankie Armstrong, Anne Briggs, June Tabor, le sorelle Lal e Norma Waterson. Nessuno avrebbe immaginato solo pochi anni prima, nei giorni in cui Martin Carthy e Ashley “Tyger” Hutchings erano parte fondamentale del gruppo, una simile evoluzione musicale. Ma quella era l’epoca in cui regnavano purezza di tempi tradizionali, rarefatte ed epiche polifonie corali, laceranti chitarre elettriche di Tim Hart, alternate in controtempi ritmici a sostegno del violino. In quel decennio spettacolare di continuo mutamento, la creatività incalzava senza tregua e con ardore gli artisti, nessuno poteva rimanere cristallizzato, Steeleye Span ovviamente compresi. In poco tempo il gruppo era giunto ad oscurare la fama di Fairport Convention e perfino di Pentangle, avvicinandosi pericolosamente alla popolarità delle stelle del rock anglosassone. Il singolo natalizio “Gaudete” aveva furoreggiato in mezzo a quelle loro ballate macabre, tragiche e pervase di sonorità da incubo. Ora però cambiare totalmente la ritmica, decidendo di incorporare un batterista, significava togliere al basso elettrico di Rick Kemp l’onere di sostenere da solo l’intera ossatura musicale. Cosa che fino a quel momento con grande maestrìa, aveva fatto suonando secco, quasi sempre con il plettro e utilizzando distorsori e vibrati che risaltavano delle linee scarne e percussive dall’indubbio fascino. Già dal decennio precedente, voltando le spalle alla matrice blues afro-americana, la Gran Bretagna aveva riscoperto e valorizzato la propria folk music, al di fuori del chiuso delle accademie, rinverdendo la pionieristica opera di lontani e appassionati ricercatori. I contorni di questa “scuola di revival” rimanevano fluidi, imprecisati, il patrimonio plurisecolare risultava vasto e spesso era la sensibilità singola più che una reale cultura o conoscenza, a suggerire e guidare le scelte discografiche. Si era, tuttavia, arrivati storicamente a un punto cruciale. Dopo aver recuperato i folk clubs e i pub con ballate popolari, madrigali elisabettiani, danze morris rituali e feudali, canti “a cappella”, gighe e reels dell’area celtica, l’operazione modernizzatrice non si poteva più fermare. Dalla Bretagna giungeva potente la voce di Alan Stivell che teorizzava che non fosse certo utilizzando le nuove possibilità offerte dalla tecnologia che si sarebbe rinnegata la tradizione. Il rock con l’elettrificazione era diventata la moderna musica di massa e per ironia offriva la possibilità di ritornare a rendere popolare l’antica... musica popolare! Le perplessità, i dibattiti, le critiche, anche autorevoli, non mancarono ma è indubbio il merito di Steeleye Span nel rivitalizzare l’indolente arcaicità di grottesche filastrocche, storie boccaccesche e solennità epico-mitologiche. Quelle metafisiche storie così cruente e tragiche di cui la tradizione folk è colma sublimavano l’antica cronaca di cui cantavano menestrelli e trovatori nel loro peregrinare e più sgorgava sangue probabilmente più era attratta l’attenzione della gente nelle rumorose piazze dei mercati. La musica offerta dalla seconda portentosa incarnazione del gruppo aveva davvero posseduto del miracoloso nel suo essere così totalmente priva di ambiguità sonore nonostante l’utilizzo dell’elettricità. Solamente una estrema sensibilità verticale l’aveva potuta generare. Col cambio di una parte della formazione, dal quarto disco era cambiato tutto ma il risultato rimaneva ineccepibile negli equilibri perfetti tra un repertorio autenticamente tradizionale e le moderne abilità interpretative. Nel 1974 il gruppo era ancora solidamente padrone della scena folk inglese, apprezzatissimo e stimato ovunque, la sua foto campeggiava bene in vista nella Cecil Sharp House. Nello scenario del “Live at the Rainbow Theatre 1974”, Maddy Prior, nuova musa del folk, danzava leggera sull’onda della sua stessa voce di cristallo, capace di trasformare chiunque l’ascoltava, in anatra, stella, rosa, colomba o trota come le parole che cantava in Two Magicians. Anche se la sera del concerto al Rainbow non fu rappresentato, durante tutto quel tour sul palco i musicisti in sfarzosi costumi e maschere facevano rivivere anche il surreale Teatro dei Mummers, ad annunciare come un tempo al mondo contadino e pagano, che l’inverno era finalmente finito. Dal nulla appariva una coreografia di torri e alberi di mele e San Giorgio, passaggio d’obbligo del simbolismo britannico, con l’aiuto di un valente dottore riusciva a sposare la figlia del Re d’Egitto, ovvero la Primavera, assicurando così la Fertilità all’anno, a dispetto delle trame del Saraceno Inverno e del Diavolo dell’Imprevisto. Anche al di là dell’area anglo-scoto-irlandese, nel resto d’Europa in quel momento i giovani si stavano impossessando dei propri patrimoni popolari. In Germania le ricerche tendevano a fonderle con i gruppi “cosmici” mentre ovunque nelle regioni spagnole, italiane, balcaniche, in Bretagna si tuffavano nelle acque tradizionali riemergendo musicalmente rivitalizzati dalle loro mille radici sommerse. Oggi tutto questo è diventato Storia! 

Flavio Poltronieri

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