Yanna Momina – Afar Ways (Glitterbeat, 2022)

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Glitterbeat ha dato inizio nel 2015 alla collana “Hidden Music”, inanellando poche uscite, ogni dieci-dodici mesi, fuori dagli studi di registrazione, raccogliendo e dando spazio alla musica là dove quotidianamente prende corpo, raccontandola anche con le foto e i documentari di Marilena Umuhoza Delli. Nel 2019 e nel 2021 i concerti “Hidden Musics” sono stati fra i protagonisti del festival Le Guess Who? a Utrecht, coinvolgendo anche artiste relativamente conosciute come Ghalia Benali e Mónika Lakatos. Ad agosto ha celebrato la decima uscita con il risultato dell’ennesimo viaggio del produttore Ian Brennan, autore di due libri (“How Music Dies (or Lives): Field Recording and the Battle for Democracy in the Arts” e “Silenced by Sound: The Music Meritocracy Myth”) che ruotano intorno a una semplice constatazione: la musica è medicina; ma nel “Primo Mondo” stiamo assumendo dosi esagerate di medicinali scadenti. Le musiche popolari sono state una forza liberatrice, ma oggi, tristemente, finiscono per creare steccati. C’è molto da fare e da viaggiare, dunque, e per questo nuovo album Ian Brennan si è recato nel 2018 a Gibuti dove ha incontrato una voce davvero unica che si affianca alle voci femminili registrate nel carcere di Zomba in Malawi e nella speciale mappa di queste “musiche nascoste”. A Gibuti ha raccolto l’arte della cantante Yanna Momina, nata nel 1948 in una famiglia Afar, per numero di cittadini, la seconda popolazione del Paese,
presente un po’ in tutto il Corno d’Africa, anche se della loro musica si sa molto poco, essendo fra le meno documentate della regione. A differenza della maggioranza delle donne Afar, Yanna Momina compone lei stessa le proprie canzoni e questo album ne raccoglie otto, non destinate ad essere presentate in spettacoli pubblici, ma piuttosto agli incontri serali familiari e comunitari. Quando sono chiamati in causa, gli strumenti che si uniscono alla voce rispettano il contesto di intimità verso cui queste musiche sono rivolte: una scatola di fiammiferi per scandire le suddivisioni ritmiche dell’accompagnamento, una calabash (zucca vuota), due corde in risonanza su una tegola, in funzione percussiva, una chitarra acustica. Ad accompagnare Yanna Momina, voce e percussioni (compresi i suoi braccialetti), si sono ritrovati JP, chitarra, percussioni e cori, Hussan Jean, calabash e cori, e Andre Fanazara, chitarra solista, percussioni, cori e voce solista in “Heya” (Benvenuti) che, insieme ad “Honey Bee”, rende protagoniste dell’andamento ritmico le chitarre. Ma anche senza alcun accompagnamento, la voce di Yanna Momina emoziona sempre ed è in questo modo che si rivolge al marito (“For my husband”) e congeda l’ascoltatore al termine dell’album, scegliendo il registro amaro di “My Family Won’t Let Me Marry the Man 
I Love (I Am Forced to Wed My Uncle)” in cui dà voce alle donne costrette a sposarsi attraverso un matrimonio combinato, in questo caso con uno zio. L’interazione con altre voci è l’asse portante di una parte di queste canzoni. Prende forma, per esempio, nelle risposte vocali collettive durante “The Donkey Doesn’t Listen”, che sembra avere l’andamento e i toni narrativi di una favola antica, scandita dal battere delle mani. La modalità call & response caratterizza anche il brano che dà il titolo all’album, con il coro ad aprire il dialogo e la voce ben scandita di Yanna Monina in modalità recitativa, a disegnare un andamento rituale che sembra sintonizzare tutti: il gruppo è stato registrato da Brennan su una palafitta e la comune concentrazione sul far musica insieme ha fatto dimenticare la marea che saliva e che li ha così isolati per alcune ore, integrando il cigolare della palafitta nella tessitura sonora del gruppo. 


Alessio Surian

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