Rupert Wates – For The People (Bite Music, 2022)/Enda Reilly – Whisperings (EndaDeRoad, 2022)/Martyn Joseph – 1960 (Pipe Records, 2021)

Tre cantautori da Gran Bretagna e Irlanda, non esattamente e del tutto però, e fra poco capirete perché! Rupert Wates infatti è nato a Londra ma oltre quindici anni vive a New York e, anche se ha cominciato la sua carriera artistica nel 1994 quando ha firmato il suo primo contratto con una casa di edizioni musicali inglese, è solo da quando si è trasferito sul suolo nordamericano che la sua carriera è effettivamente decollata. Wates infatti è stato vincitore o quantomeno finalista di almeno una cinquantina di competizioni e oltre due dozzine di sue canzoni sono entrate a far parte del repertorio di altri artisti, inclusi ben due interi album di sue composizioni registrate da artisti indipendenti a Nashville e Los Angeles. Nel frattempo ha pure pubblicato almeno dieci dischi a suo nome, tutti ampiamente apprezzati dalla critica specializzata dei due lati dell’Oceano Atlantico. Quasi tutti questi dischi sono stilisticamente molto più prossimi al lavoro dei suoi colleghi nord americani o più genericamente al cosiddetto Americana sound o se preferite quello che in Gran Bretagna con un certo sciovinismo qualcuno ha battezzato British Americana. Questo non vale per “For The People” in quanto quest’opera segna un netto ritorno a uno stile decisamente più in linea con la grande tradizione del cantautorato inglese ma anche con le radici più propriamente folk dell’artista. Molte delle canzoni qui presenti, infatti, sono strettamente basate su racconti della tradizione inglese e narrano storie ambientate negli ultimi due secoli o poco più: storie di gente ordinaria, soldati in partenza per la guerra, contrabbandieri, marinai e amanti traditi o abbandonati, in pratica gli stessi argomenti che si ritrovano nelle antiche ballate tradizionali. Le undici tracce incluse del disco però portano tutte le firma di Rupert Wates, che non solo si dimostra un superbo artigiano della canzone e un raffinato tessitore di melodie ma anche un chitarrista dal tocco fluido e delicato, in possesso di una tecnica in finger picking che è più che sufficiente per sostenere la sua voce il cui timbro pare quasi a metà strada fra John Martyn e Nick Drake, due artisti che devono certamente avere avuto qualche influenza su di lui e che non di rado sono rievocati anche nelle atmosfere di “For The People”. Gli ospiti che si sono avvicendati in sala d’incisione infatti sono pochi e si limitano a poche comparsate: Rorie Kelly e Stacey Lorin hanno prestato qua e là le loro voci, mentre alcuni famigliari hanno contribuito al delizioso coro di “The Dance Of Joy”. Infine, Adrianna Mateo ha impreziosito con il suo violino “Ullswater Cove”. Queste sono forse, insieme a “Justified” e “Medley: All Fair Ladies/Spanish Galleon” fra quelle che melodicamente appaiono come più strettamente imparentate con la tradizione inglese ma in verità l’aria che si respira in “For The People” è quella in ogni singolo episodio dell’album. 
Anche Enda Reilly da qualche anno ha spostato la propria base operativa Oltreoceano, per la precisione nel Michigan, ma è nativo di Dublino dove ha cominciato a esibirsi come busker prima di arrivare nel circuito dei clubs e poi anche dei teatri; al contempo ha instaurato una proficua collaborazione con nomi del calibro di Kila, John Spillane, Lisa Ó Neill, Liam Ó Maonlaí (Hothouse Flowers) e soprattutto Aoife Scott per la quale ha composto diverse canzoni fra cui “All Along The Wild Atlantic Way”, che è stata al primo posto in classifica in Irlanda nel 2016 (da quelle parti la musica delle radici per fortuna incontra ancora i favori del pubblico) nonché singolo dell’anno. Spesso paragonato a Christy Moore, Dick Gaughan e Paul Brady Enda Reilly è un autore la cui scrittura è ben radicata nella ricca tradizione celtica e infatti non compone soltanto in inglese ma molte sue canzoni sono in gaelico. Quest’ultimo lavoro però contiene soltanto due brani che portano la sua firma ed uno è uno strumentale, “Máirseáil Saighdúra” che serve a farci comprendere come l’irlandese sappia maneggiare la chitarra (in genere usando il plettro) con una certa disinvoltura; l’altro apre l’album, ed è una bella versione della canzone portata al successo da Aoife Scott, che per la prima è stata registrata dal suo stesso autore in una bella versione per sola chitarra e voce. Questa del resto, con un paio di eccezioni, è la trama ricorrente in “Whisperings” in cui l’artista ha scelto di cimentarsi con alcuni grandi classici della musica popolare scoto-irlandese, brani ben noti al pubblico del genere come “The Lakes Of Pontchartrain”, “Go Lassie Go” (altrimenti nota come “Wild Mountain Thyme”) e “Red Is The Rose” (variante irlandese della scozzese “Loch Lomond”). Anche qui ci sono un paio di canzoni in gaelico fra cui una versione di “Siúil A Rún” (che qualcuno ricorderà nelle versioni di Clannad e Whisky Trail) ma che Enda Reilly ha voluto accoppiare con la controparte nordamericana dove, mantenendo in parte melodia e testo originari, è diventata un inno della guerra civile dal titolo “Johnny Has Gone For A Soldier”. Un paio di episodi provengono dalla penna di altri autori: la splendida “Caledonia” di Dougie MacLean e “Come Back Paddy Reilly To Ballyjamesduff” che si deve al grande poeta, pittore e compositore irlandese Percy French (1854-1920). Pur dovendo confrontarsi con centinaia di versioni di queste canzoni e con interpreti ben più celebrati, alla fine Enda Reilly non sfigura affatto e per fortuna c’è ancora qualcuno che, in uno scenario folk dominato dai cantautori, si preoccupa di riportare alla luce qualche prezioso gioiello appartenente alla tradizione. 
L’artista che chiude questo scritto, Martyn Joseph, è indubbiamente il più famoso dei tre, anche se non certo nel nostro Paese ove comunque in passato sono stati pubblicati i suoi due lavori editi da una major, la Epic/Sony Music, a cui devono “Being There” (1992) e “Martyn Joseph” (1995), che hanno incontrato un notevole riscontro in patria, tanto che per qualche tempo il suo autore fu definito il nuovo Cat Stevens. In verità le analogie fra l’autore di “Tea For The Tillerman” e il cantautore gallese sono pressoché inesistenti, a parte il considerevole talento, specie considerando che Martyn Joseph ha sempre indicato fra le sue influenze molti artisti americani, non di rado citandoli pure nelle sue canzoni, come avviene anche nel brano che apre questo CD, “Born Too Late”. “1960” è il ventitreesimo album di studio dell’artista gallese il quale, da quando ha fondato la sua etichetta personale, non ha mai sbagliato un appuntamento discografico, ed è uscito a poco più di un anno di distanza dal suo tributo a Phil Ochs, “Days Of Decision” (2020). Sin dai primi giorni in cui si è messo in proprio l’artista si è creato uno stile personalissimo basato sulla sua voce calda e confidenziale e su tematiche che riflettono il suo profondo impegno civile che lo ha visto frequentemente occuparsi di diritti umani e civili, giustizia sociale, di emarginazione, e delle problematiche del terzo mondo come la cancellazione del debito. Inoltre da anni ha scelto di abbandonare arrangiamenti troppo elaborati – come avveniva nei due dischi citati sopra, che per altro non sono affatto da dimenticare – in favore di un accompagnamento più scarno e ovviamente più acustico, in linea insomma con quello che riesce meglio a riprodurre dal vivo. La sua chitarra, un po’ di pianoforte e occasionalmente una sezione ritmica piuttosto discreta sono però quanto basta per aggiungere il colore necessario alle sue splendide canzoni, sempre costruite su melodie incisive e accattivanti sia che egli abbia scelto un clima più intimo e quieto, come avviene in prevalenza in “1960”, sia quando – sebbene meno di consueto – si cimenti con un ritmo leggermente più sostenuto. Inutile fare menzione di qualche canzone in particolare, tutto l’album è di altissima qualità, senza nemmeno un secondo di stanchezza o debolezza, perché è l’ennesimo frutto di un artista maturo ed un superbo musicista, in sostanza uno dei migliori cantautori britannici il cui lavoro merita assolutamente di essere conosciuto da chiunque sia attratto dalla canzone d’autore anglosassone di cui ne rappresenta da oltre un paio di decenni uno dei più insigni esponenti. 


Massimo Ferro

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