Pejman Tadayon – Non Siamo Sufi. Composizioni per poesie mistiche persiane (SquiLibri, 2022)

Quali i punti comuni nello scegliere le liriche? 
Ci sono diversi argomenti di cui si parla. Uno di questi, è il fatto che nella nostra società non c’è più è la malinconia. In Occidente è interpretata subito come tristezza. C’è un brano, “Sareban”, che parla di un amore che si sta allontanando: un’atmosfera triste su una musica gioiosa e ritmica. C’è la poesia triste e la musica che è felice, ma accade anche il contrario. È un po’ come lo ying e lo yang, si tratta di un equilibrio tra gioia e malinconia. Quando il pubblico chiede il bis a un concerto in Occidente spesso il musicista sceglie un brano vivace, da noi in Iran o in India si fa il contrario, scegliendo il brano più lento e triste per creare questo contrasto, perché la gioia vera per alcuni popoli deriva dalla malinconia. Se tu proponi gioia, dopo la gioia c’è la tristezza. Quindi a un concerto io non ti lascio andare a casa con la tristezza, ti faccio sentire una cosa triste per lasciarti con la gioia.

Rūmī e gli altri tre poeti i cui testi cantate nel disco, cosa possono insegnarci oggi?
Sono argomenti di cui abbiamo bisogno. Gli occidentali stanno scoprendo che valori importanti esistevano in Oriente e i popoli orientali non si rendono conto e vogliono fare gli stessi sbagli che ha fatto l’Occidente. Nelle società di oggi il messaggio di questi poeti, pittori e calligrafi è importante. I giovani hanno tanti mezzi per conoscere la storia ma non si avvicinino alla storia, non approfondiscono. Ascoltano però rimangono in superficie, perché non fanno un percorso. Faccio un esempio per far capire questo discorso. Nell’ascoltare musica dal cellulare oppure nel guardare un video non facciamo un’azione fisica per acquisire quel valore culturale… Una volta, quando non c’erano i dischi andavi al concerto, andavi dal maestro ad ascoltare la musica e quest’azione ti cambiava tanto, si imparava in modo diverso. Con l’arrivo dei dischi, andavi a comprare la musica dal negozio a comprare il disco da portare a casa. Leggere il libretto era percepire la musica in maniera diversa. Oggi con un click su Spotify non fai quel rituale per
capire la musica: è come un cibo subito bello e pronto… che non prepari tu. L’ascolto è un rituale, occorre avere rispetto per il nostro orecchio, ma occorre anche fare un percorso di conoscenza. Queste poesie del disco sono un ritorno ad altri sapori, ad altre dimensioni della vita che neppure riusciamo ad immaginare, oggi che ci riteniamo più avanzati ed evoluti. 

Quali le coordinate musicali di queste composizioni?
Ho usato strumenti antichi, però nelle sonorità c’è un’armonia occidentale. Non vuole essere un progetto di recupero filologico, come detto prima, quale che sia il senso che si dà al termine sufi. Ho composto nuovi brani seguendo le suggestioni suscitate dalle poesie di questi grandi poeti persiani. Vivo tra due realtà, le composizioni riflettono la mia condizione di persiano nato in una particolare temperie culturale alla quale continuo ad essere legato, ma cresciuto in un contesto molto diverso che ha finito per influenzare la mia sensibilità artistica e musicale. Spesso non ho usato i quarti di tono. I musicisti che suonano sono italiani, loro insieme interpretano un’altra cultura, diventa un linguaggio comune, hanno interpretato a modo loro i brani, contribuendo alla parte compositiva. Più in generale, la musica persiana, come quella araba e quella turca ottomana, è basata sul “mood”, quindi il concetto della scala del maqām, o come si dice da noi in Iran dastgāh, è importante. Quando cominci un brano è difficile che cambi le note della scala, perché hai molto rispetto per quel “mood” nel quale devi entrare. Nei brani che ho fatto è molto evidente: ecco perché ci sono pochi cambi degli accordi. C’è poi il discorso del ritmo. Nei brani sono presenti soprattutto ritmi dispari, in 7/8 o 6/8 con accenti particolari. Lo strumentale “Saba” è in 8, c’è “Sareban” che è in 10/8.
Insomma, ho usato i ritmi tradizionali dell’area iranica.

Dicevi prima che la tua condizione è di essere sospeso tra due mondi, tra due culture…
Sono vent’anni anni che vivo in Italia, ho quarantacinque anni. Quando sono qua mi sento sempre iraniano, ma quando vado in Iran mi sento italiano e straniero e così mi vedono. Parlo l’iraniano di venticinque anni fa. Sono problematiche che capisce chi vive tra due culture totalmente diverse. Vedo due realtà, di cui cerco di trovare punti comuni. A volte mi chiedo: ‘Perché quel brano che ho fatto di un grande maestro non è piaciuto qua? E invece quell’altro brano, più brutto per me, è piaciuto a tutti? All’inizio mi dava fastidio. Poi ho cominciato a chiedermi: ‘Perché questa differenza?’ È una questione di relativismo, di spazi e tempi diversi che hanno vissuto le diverse generazioni. Chi come me, vive questa condizione esistenziale, può comprendere meglio certe problematiche che sono significative anche di fronte alla condizione di guerra che stiamo vivendo, dove si chiede di schierarsi, censurando anche chi non prende posizione. 

Che correlazione c’è tra la musica che suoni e i tuoi dipinti?
Come ho accennato prima l’idea nasce da fatto che nel mondo digitale non hai oggetti fisici. Mi piaceva creare un oggetto anche bello da vedere. Quando suono, penso sempre ai colori, la sinestesia mi è sempre piaciuta. Da piccolo quando dipingevo, sentivo musica. Ero innamorato di Leonardo da Vinci, di quel modo di vedere la vita da parte di uno che voleva scoprire tutto. Poi all’età di 19 anni ho creato dei dipinti che raccontavano la musica. Ho letto un libro di Kandinsky, “Spiritualità nell’arte”, in cui lui parla del concetto che un dipinto deve avere la potenza di far ascoltare anche la musica. I colori devono raccontare anche altre dimensioni, non solo essere visivamente belli nelle forme. Quando riconosce una forma prodotta dall’artista che assomiglia molto alla realtà, la maggio parte delle persone ammira la tecnica
dell’artista. Invece nell’espressionismo astratto di Kandinsky anche le forme perdono il senso, non è riconoscibile un oggetto nel suo quadro. 

Nasci prima pittore o musicista?
Io nasco come pittore, già quando avevo tre anni dipingevo molto bene. Ho dei dipinti che rassomigliano a foto, in tempi in cui in Iran, dopo la rivoluzione islamica, non si potevano leggere libri su movimenti artistici contemporanei e la pittura era figurativa. Piano piano ho scoperto questi movimenti e mi sono interrogato su altri modi di fare arte. A 18 anni ho lasciato la pittura, insegnavo nell’accademia di mio nonno, e cominciato ad occuparmi di musica. Dopo qualche anno ho ricominciato a ridipingere ma senza fare più figurativo, mischiando pittura e musica: la musica è stata la salvezza per riprendere a dipingere. Quando sono venuto in Italia, che ho scelto perché era il Paese per capire da dovere era partito il Rinascimento, sono andato a studiare all’Accademia di Belle Arti di Firenze e, contemporaneamente, musica occidentale alla Scuola di Musica di Fiesole. Da lì mi è venuto in mente di mettere delle corde sui dipinti, ma non volevo creare uno strumento musicale, ma fare sì che chi andava alla mostra poteva toccare il quadro e ascoltare la musica prodotta proprio da lui che guarda il quadro. Pizzicando le corde, facendo risuonare questi quadri, non si è più soltanto spettatore, ma parte di un’esperienza che coinvolge tutti i sensi. Nella mia pittura sonora c’è un legame tra miniatura antica persiana e la pittura di oggi. Ho imparato molto dalla libertà di pensiero di Mario Schifano, che ho mischiato con pittori come Klee e Kandinsky e con le suggestioni derivate dallo studio del Radif, del repertorio tradizionale persiano. 

Il CD-book contiene riproduzione di tuoi quadri.
L’influenza delle miniature e della poesia mistica si intravede in questi quadri in cui, come scrivo nel book che accompagna il CD, ho ripercorso antichi rituali di danza e musica presenti nella tradizione e nella letteratura persiana, cercando allo stesso tempo di plasmare figure e colori in modo che possano trascendere particolarità storiche e parlare una lingua universale. 

Questa attività si innesta con quella della Galleria Sonora che hai fondato…
La Galleria Sonora, che ho fondato nel 2018, nel quartiere San Giovanni di Roma è un luogo di condivisione e di scambio, in cui si incontrano e collaborano artisti provenienti da ogni parte del mondo, che unisce le mie due principali passioni. È un luogo per eventi e uno spazio espositivo che ospita reading, laboratori, seminari e dove organizzo concerti di musiche rare, soprattutto musiche tradizionali, classiche di Paesi diversi. Nella Galleria Sonora ci sono i miei quadri di diversi periodi. Alcuni hanno le corde altri no. Come pittore non sono mai entrato nel circuito delle mostre e delle gallerie. Quando ho avuto contatto con galleristi, mi dicevano loro cosa avrei dovuto creare... Anche nella musica non faccio mai il turnista, faccio quello che mi piace. 

Cosa c’è nel cantiere sonoro di Pejman Tadayon?
Per un prossimo lavoro discografico, sto registrando per oud un repertorio del Radif, a partire dalle partiture per setâr fatte da Dariush Talā’i. Sto lavorando su questi materiali in maniera filologica. In questo caso occorre avere rispetto: è lo stesso approccio con cui si suona la musica classica occidentale: non è che puoi cambiare Bach. 

Ci proponi una playlist di ascolti imprescindibili di musica classica iraniana?
Ecco un possibile percorso di ascolto: 


Pejman Tadayon – Non Siamo Sufi. Composizioni per poesie mistiche persiane  (SquiLibri, 2022)
Non è certo la prima volta né sarà l’ultima che sulla scia dei profondi significati e insegnamenti, della potenza sonora, ritmica e danzante sono adattate in note le liriche di quattro sapienti, tra i massimi autori della tradizione letteraria esoterica persiana: Jalāl al-Dīn Muḥammad Rūmī (1207-1273), Omar Khayyâm (1048- 1131), Musharrif al-Dīn ibn Muṣlih al-Dīn, più conosciuto come Saadì (c. 1213-1291) e Khāje Shams o-Dīn Moḥammad Ḥāfeẓ-e Shīrāzī (1315-1390). Lo ha fatto con gusto raffinato Pejman Tadayon, compositore, musicista e pittore, cresciuto a Eṣfahān ma in Italia da oltre vent’anni, realizzando un Cd-book che esce per la collana Crinali dell’editore Squilibri. È un oggetto d’arte esso stesso, per via della riproduzione dei dipinti di Tadayon e degli scritti dell’artista iraniano che accompagnano l’ascolto, illustrando il senso di dialogo che anima il lavoro di un musicista mediatore, che si muove tra culture diverse. Il quale subito nel titolo rivela la volontà di sfuggire a un’ipotesi di recupero filologico per raccontare in “canzoni” il rifiuto di ogni appartenenza prescritta e rigidamente intesa, presupposto imprescindibile per vivere in libertà e in armonia con il mondo. Si sottolinea piuttosto la ricerca della Conoscenza che anima questi grandi poeti esoterici, collocabili in una dimensione di ricerca interiore che va oltre il sufismo, termine esso stesso di origine occidentale ottocentesca, minimamente usato in Oriente a fronte del termine arabo “tasawwuf”. I versi in lingua farsi viaggiano su una scrittura fine, ricca e sfaccettata. Nel booklet è data la traduzione italiana delle liriche, che pur non potendo restituire pienamente la multiforme ricchezza semantica della lingua originale si propone come mediazione per l’accesso dell’ascoltatore alla profondità interiore di questo patrimonio universale dell’umanità. “Non siamo sufi” è stato registrato durante i mesi del primo lockdown in solitaria alla Galleria sonora di Roma (mixaggio di Mario Rivera e mastering di Fabrizio De Carolis). Il sottotitolo “Composizioni per poesie mistiche persiane” racchiude il senso di libertà compositiva che anima Tadayon (canto, oud, saz, ney, daf, kamancheh), che lo ha condotto a scegliere strumenti acustici della multiculturale tradizione musicale persiana con la sola estraneità della viola da gamba – eppure esso stesso strumento simbolo di storiche connessioni tra Oriente, mondo arabo ed Europa – per condurci nel suo universo sonoro che fonde i modi e i cicli ritmici del Radif iraniano con elementi armonici e sensibilità contemporanei. Per portare a compimento questa scelta estetica, Tadayon ha coinvolto un piccolo ensemble di amici italiani con cui già collabora nei suoi svariati progetti. Si tratta di Barbara Eramo e Martina Pelosi (voce), Simone Pulvano (percussioni), Massimiliano Barbaliscia (santur), Renato Vecchio (duduk) e Luigi Polsini (viola da gamba), strumentisti e cantanti adusi alle musiche modali che, tuttavia, a loro volta si sono dovuti integrare nel mondo musicale persiano. Ad aprire il programma è l’incalzante 7/8 di “Musulmani”, in cui la lirica di Rūmī si interroga sul conoscere sé stesso. “Seguono “Zohreh” e “Mey Nush”, due motivi ispirati alle quartine di Khayyâm, scienziato e matematico, nonché grande cantore del vino, di cui il secondo motivo si fa apprezzare per il colore timbrico portato dal duduk e dal bel crescendo corale. In “Saghi” è Rūmī a celebrare la bevanda “che non mi faccia fermare/ e come Tu comandi, mi aiuti a girare, girare…”. Il saz è lo strumento conduttore di “Zahed”, trasposizione di un componimento di Hāfez. In un certo senso è una delle sequenze più “tradizionali” dell’album, dove si canta: “Quei falsi devoti non capiscono nulla della nostra condizione/Anche se per loro non proviamo neppure avversione. Sulla via dello spirito ogni cosa è a vantaggio del cercatore, sulla strada diritta non puoi perdere la direzione, o mio cuore”. Hāfez è il poeta oggi più amato in Iran ma che, in vita, sì è dovuto misurare con le rigidità e le ipocrisie dei religiosi più retrivi. Di questo brano esiste un video girato nel deserto di Varzaneh, nei pressi di Esfâhan, “per indicare che bisogna accettare la grandezza e magnificenza di quelle infinite distese di sabbia per poterci vivere dentro o attraversarle come hanno fatto nei secoli tanti popoli e innumerevoli carovane”, racconta Pejman. Il successivo “Sareban” è un tema molto vivace ritmicamente (è in 10/8) che sposa la poetica immortale di Saadì. Ci immergiamo in ambientazioni sonore differenti con “Oudi”, “Biman” e “Luna”, quest’ultima superlativa sul piano poetico e musicale. Sono rielaborazioni di tre testi di Mawlanā, sempre caratterizzate da parti strumentali e vocali dove si incontrano le scale modali orientali e armonizzazioni occidentali, che pure attraversano i secoli, con richiami alla musica antica del nostro continente. Con i suoi tempi composti, lo strumentale “Saba” profonde una costellazione di suggestioni, facendo da commiato a un prelibato progetto culturale di gran conforto per chi si pone sulla via dell’ascolto non effimero. 

Ciro De Rosa

Foto di Roberto Moretti - Opere pittoriche di Pejman Tadayon tratte dal booklet del disco "Non siamo sufi"

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