Poteva non essere acceso dal fuoco delle arti pittoriche e musicali insieme Pejman Tadayon, nativo di Eṣfahān, la “città delle rose” iraniana, conosciuta come Nesf-e-jahan (ossia “la metà del mondo”), dai tempi del suo massimo splendore sotto il regno dello Shâh safavide Abbâs I (1557-1628)?
Precoci i suoi inizi come pittore sotto la guida del nonno materno, cui segue, a partire dalla tarda adolescenza, lo studio della musica classica persiana e dei liuti târ e setâr con i maestri Kamran Keyvan, Mohammed Reza Lotfi e Behrooz Hemmati. Nel 2003 Tadayon si trasferisce in Italia a Firenze per studiare arte nella culla del Rinascimento. Dopo pochi anni si sposta a Roma dove consolida la sua carriera di musicista. Collabora con il gruppo Sarawan-Tamburi d’Iran, fonda egli stesso un ensemble di musica persiana, Navà, che incide “Viaggio nei colori (2007) e “Hilta” (2010). Con i tamburi a cornice di Andrea Piccioni e le tabla di Sanjay Kansa Banik dà vita allo Yar Ensemble, che pubblica l’album eponimo (2010). In seguito, crea il Pejman Tadayon Ensemble, in cui compone musiche originali ispirate alla poetica di Rūmī e con cui pubblica “Universal Sufi Music” (2013). Due anni dopo, in combutta con Nando Citarella e Stefano Saletti, nasce il Café Loti, ispirato progetto di scambio di idee che prende nome da un luogo simbolico di Istanbul, a sua volta cumulo di reminiscenze letterarie e di esotico viaggiare. Del 2020 è “Middle East Big Screen” con Marco Pesci, pubblicato in digitale (FMR). Altrettanto numerose le collaborazioni con artisti di diversa estrazione: Mauro Pagani, Massimo Ranieri, Patty Pravo, Andrea Moricone, Andrea Parodi, Paolo Vivaldi (con cui ha pubblicato l’album “Chador”), Nabil (Radiodervish), Bungaro, Javier Girotto e il compatriota Alireza Ghorbani. Nel teatro e nel cinema è con Maurizio Scaparro, Moni Ovadia e Silvio Orlando.
È anche ideatore del progetto “Rūmī e San Francesco”, portato in scena all’Auditorium Parco della Musica di Roma, da cui è stato tratto il docufilm “Quando Rūmī incontra Francesco”, del regista egiziano Mohamed Kenawi (2017), che vede Tadayon nel duplice ruolo di protagonista e autore delle musiche. A febbraio 2022 ha realizzato per l’editore Squilibri “Non siamo sufi. Composizioni per poesie mistiche persiane”, un CD-book, in cui Tadayon si misura con scrittura musicale ispirata dalla poetica di quattro grandi sapienti persiani (Rūmī, Omar Omar Khayyâm, Hāfez e Saadì). Un lavoro che si presenta esso stesso come prezioso oggetto d’arte contenente scritti dello stesso Pejman che accolgono il lettore-ascoltatore sul senso del progetto e riproduzioni dei suoi dipinti. Non una scelta casuale, se è vero che nei modelli melodici classici del Radif persiano come nella struttura della performance musicale sussistono analogie e parallelismi con altre forme d’arte iranica (pittura, miniature e architettura). Le musiche originali sono state composte dal polistrumentista Tadayon (canto, oud, saz, ney, daf, kamancheh) per un piccolo ensemble acustico che comprende Barbara Eramo e Martina Pelosi (voce), Simone Pulvano (percussioni), Massimiliano Barbaliscia (santur), Renato Vecchio (duduk) e Luigi Polsini (viola da gamba). Di questo nuovo album parliamo con l’eclettico artista iraniano: pittore, compositore, concertista, didatta e animatore culturale.
In che misura la letteratura antica legata alla spiritualità è parte della tua formazione culturale?
Tutta la cultura musicale persiana, araba e in parte anche quella turca e indiana derivano dalla letteratura e dalla mitologia. In occidente la musica viene percepita vedendo dei singoli musicisti o delle grandi star in TV o al cinema. L’idea di musica è presa da questo immaginario. Tutto il mondo del pop fa parte di questo
gioco… beninteso, non c’è niente di male. Però, gran parte dei musicisti tradizionali che arrivano dalla musica classica dei Paesi dell’Oriente l’idea di musica deriva o dalla mitologia o dalla letteratura. Fai il musicista per compiere un’azione spirituale, non inteso nel senso religioso. La musica è una forma di interpretazione della poesia. Molta musica perdiana è stata composta per produrre sonorità che ricordano le poesie. Quando tengo seminari, faccio sempre questo esempio: in molti paesi arabi, ed anche in Iran prima dell’instaurazione del governo islamico, in prima serata in TV è possibile vedere un musicista che suona mezz’ora o un’ora con un assolo di oud e la gente a casa non si stanca di ascoltarlo, godeva, partecipava di questo evento. Ciò fa capire quanto la musica sia la manifestazione di un linguaggio che occorre conoscere. Chi non conosce il linguaggio si stanca perché lo paragona al nostro modo di fruire la musica. In tal senso il mio disco è molto legato alla poesia.
Che ruolo ha la poetica di questi mistici nell’Iran contemporaneo?
Per fortuna ha ancora un ruolo molto importante. Dopo la rivoluzione islamica il Paese è stato un po’ chiuso verso l’Occidente e la musica è stata proibita in diverse situazioni. Però, l’arma tagliente della musica e della poesia arriva. Ci sono musicisti che utilizzano la poesia di Hāfez o di Rūmī di settecento anni fa come protesta sociale, per criticare i mullah e i fondamentalisti. Cosa che già Hāfez faceva ai suoi tempi. Nel disco c’è “Zahed”, una poesia di Hāfez che parla proprio di questo argomento ‘politico’. Loro all’epoca erano intellettuali che criticavano l’Islam istituzionale e politico. Khayyâm, che era anche un grande scienziato ci sono costellazioni stellari a suo nome, nelle sue quartine, parla molto del godersi la vita senza dare ascolto ai religiosi.
Ancora, i giovani usano questi concetti per dare un messaggio sociale e molto attuale. Anche nella msuica, i giovani oggi suonano l’oud, con un approccio che non è paragonabile al suonare il liuto rinascimentale qui in Occidente. Gli strumenti tradizionali sono usati con un pensiero contemporaneo, senza cambiare i modi, ma con un concetto p-iù attuale.
Come mai il titolo “Non siamo sufi”?
Qualcuno ha letto… “Non siamo stufi!” (ride, ndr). È un’interpretazione delle parole di questi poeti. In qualsiasi forma di religione esiste un pensiero fondamentalista. Il punto è proprio questo: molti di questi poeti non volevano essere etichettati come sufi, volevano essere liberi. Per esempio Rūmī – che era un buon musulmano, un buon sufi – in una sua poesia scrive: “Cosa fare o musulmani, non conosco più me stesso/Non sono cristiano né ebreo, né mazdeo o musulmano!”. Lui dichiara la sua non appartenenza a qualsiasi religione o sistema filosofico, va oltre. Dicendolo in maniera molto semplice esiste il pensiero religioso islamico, dopo l’Islam l’intellettuale arriva al sufismo che va oltre l’Islam e dopo il sufismo nella tradizione persiana c’è il concetto di “aref”, la conoscenza. Nella tradizione persiana ci si riferisce ai grandi poeti della tradizione sufi come “aref”, sapienti che possiedono una conoscenza profonda e che loro stessi sono critici verso i sufi. “Aref” è colui che ha avviato una ricerca personale e guarda anche criticamente agli insegnamenti classici della religione, approdando a una visione del tutto innovativa.
Uno dei massimi studiosi di questo universo musicale, Giovanni De Zorzi, scrive: “Non esiste musica sufi, ma musica praticata e ascoltata dai sufi” …
Durante i miei seminari prendo in giro alcuni partecipanti dicendo: ‘Guardate che musica sufi è anche la musica di Morricone. Anche alcuni brani di Radiohead per me sono sufi. In certe circostanze o sulla base della nostra interpretazione, la musica ha il potere di farci vedere altre dimensioni. Come se in un certo attimo, riesci a vedere il senso della vita. I grandi mistici erano quelli che riuscivano ad aumentare questo spazio temporaneo, andavano in estasi vera, godendo al cento per cento la musica e il suono. Alcune tradizioni, come in Giappone o in Cina hanno la fortuna di conoscere la filosofia del suono. Faccio un esempio un po’ diverso, quando ho mangiato la pizza in Italia per la prima volta, mi ha fatto schifo perché ero abituato alla pizza fatta in Iran alla maniera americana, con una cosa sopra l’altra. Non conoscevo il sapore della semplicità, non conoscevo il vero sapore dell’olio e del pomodoro fresco, criticavo quella pizza, perché non conoscevo la semplicità… È la stessa cosa: se noi conosciamo il senso della musica: cosa è una nota? Cosa è un tono? Riusciamo a percepire quella dimensione vera della musica che alcune discipline e il sufismo cercano di avvicinare? Ogni Paese interpreta la musica spirituale in modo diverso. Spesso i musicisti sufi nelle diverse culture mischiano con quello che accade nella società contemporanea. Per alcuni questa operazione assume contorni un po’ kitsch, altri preferiscono un approccio più minimale, altri ancora più colorato. Per esempio, è qualcosa che si vede nelle danze, pensa alla differenza tra danze sufi in Turchia o in Egitto.