A quasi dieci anni di distanza da “Vecchia Roma”, gli Ardecore tornano con “996 Le Canzoni di G. G. Belli Vol.1”, qualcosa di più di un semplice album, ma piuttosto un progetto culturale di grande spessore, una scelta di campo radicale e netta che li vede mettere in musica i sonetti di Giuseppe Gioachino Belli. La band romana ci consente di apprezzare in una luce nuova liriche pungenti, versi scritti a metà Ottocento; eppure, ancora modernissimi nel loro disincantato realismo. Ad affiancare, l’anima degli Ardecore, Giampaolo Felici, in questa nuova avventura è affiancato da una formazione d’eccezione composta da Adriano Viterbini, Jacopo Battaglia, Giulio Favero, Massimo Pupillo, Geoff Farina, Ludovica Valori, Gianluca Ferrante e Marco Di Gasbarro, a cui si aggiunge la partecipazione speciale di Davide Toffolo dei Tre Allegri Ragazzi Morti, che presta la sua voce a due brani. Il disco si apre con i toni cupi di “Campo Vaccini”, scanditi dall’incedere pesante di archi e fiati, e da un pattern ritmico dolente e sferragliante. Si prosegue con “Er cimiterio de la morte”, che vede, fra le altre cose, il primo intervento di Toffolo. Qui le trame ipnotiche delle chitarre di Viterbini si intrecciano alla perfezione con la ritmica trascinante e gli echi celtici dei fiati. “Er zagrifizzio d’Abbramo”, uno dei passaggi migliori del disco, è una cavalcata rogue folk con un rullante tempestoso e il basso a sostenere l’ostinato dei mantici e le chitarre. Se “La Strega” distende le tensioni del pezzo precedente, ammantandole di arpeggi di chitarra classica e colori misteriosi e languidi, “Er decoro” è caratterizzata dall’arpeggio di bouzouki, annegato in un lago di synth ed innervosito da una chitarra corrosiva. A seguire, troviamo i toni zoppicanti della corale “La poverella” con le pennate secche della chitarra acustica a tratteggiarne l’andamento ritmico, e le aperture di fisarmonica e fiati colorare il tutto. “L’aribbartato” è uno sghembo terremoto folk, con un intermezzo strumentale pizzicante ed un’atmosfera di ruvida ironia, mentre in “Campa e llassa campà” in cui ritroviamo Toffolo, si snoda lungo l’andare militaresco della batteria, squarciata dalle tensioni elettriche della chitarra e dalle aperture dei sintetizzatori. Nervi elettrici che si perpetuano in “Uno mejo dell’antro”, infuocandone l’ossatura, resa ulteriormente scheletrica da un pattern ritmico desertico e dagli interventi stranianti del kazoo. “Er confortatore” è giocata sul dialogo tra chitarra, mandolino e djeli n’goni e caratterizzata dall’intensa intepretazione di Felici. Anche “Er codisce novo” è spostata su timbri più morbidi, con un pianoforte a sostenere le incursioni di synth languidi ed una secca figurazione ritmica di grande impatto. A riequilibrare i colori atmosferici è “La carità”, guidata dall’intreccio tra le chitarre acustica ed elettrica e i synth che ritroviamo in “Er negoziante fallito” a proiettarla in una dimensione di algida stasi con basso e chitarra a permeare il tutto. Verso il finale arrivano “La creazzione der monno” che spicca per la struttura elettronica da cui si staglia la chitarra acustica, l’oscura “La fin der monno” con gli squarci di chitarra elettrica ad imprimere pathos all’architettura del brano e “Er giorno der giudizzio”, con l’incastro fra le trame dei synth e le aperture della fisarmonica. Il primo volume di “999 Le canzoni di Giuseppe Gioachino Belli” è un disco necessario, un lavoro che colpisce per la ricerca musicale e ha il merito di ridare lustro all’opera del poeta romano, ma soprattutto ci consegna in un istantanea musicale dell’universalità della letteratura, capace di far raccontare il ventunesimo secolo da un uomo dell’Ottocento. “All’urtimo usscirà ’na sonajjera d’Angioli, e, ccome si ss’annassi a lletto, smorzeranno li lumi, e bbona sera.”
Giuseppe Provenzano
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